La giara che non era per me: L'ingresso della memoria
Quando chiudo gli occhi, vedo la curva del marciapiede. Sempre lei, morbida e larga, che disegnava il passaggio tra il mondo moderno e la villa antica di fronte. Il portiere ci riconosceva subito, me e mia madre e con un cenno gentile, citofonava a mia nonna. “È arrivata,” diceva, come se quel momento fosse un rito.
Salivamo la prima scalinata, lentamente. Ogni gradino era familiare. L’ascensore ci accoglieva con il suo specchio leggermente macchiato, dove mi guardavo senza sapere ancora chi ero.
Il pianerottolo era ampio, silenzioso. E poi l’ingresso. Rettangolare, solenne. Sulla sinistra, una specchiera dorata che sembrava riflettere solo il passato. Sotto, il tavolino con ripiano di marmo freddo e lucente, come le domeniche invernali. Poco più in là, l’appendiabiti in velluto verde trapuntato, con la mensola per la cappelliera che conteneva segreti invisibili. Il portaombrelli e i bastoni sembravano i soldati silenziosi della casa.
E poi lui: il David. Una statua di marmo su piedistallo, copia perfetta, che mi guardava ogni volta come se mi sfidasse a comprendere qualcosa. Era il passaggio prima del corridoio. Come se dovessi meritarmi l’accesso.
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