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venerdì 5 settembre 2025

Il caschetto perfetto e Winnetou sul plaid scozzese

Un giorno mio fratello arrivò a casa con una sorpresa per me

Era un Cicciobello indiano si chiamava Winnetou, lo avevo visto in una rivista e mi piaceva molto. Senza dire nulla a nessuno era andato a comprarmelo con i soldi che aveva guadagnato suonando con la sua band. Winnetou era diventato il mio nuovo compagno di giochi.



Nel salotto di casa, dove la luce del pomeriggio filtrava obliqua tra le tende, me ne stavo seduta a gambe incrociate sopra la solita coperta scozzese. Il pavimento sotto di me non era di legno, ma di quelle mattonelle tipo marmo, con minuscoli pezzetti colorati incastonati come coriandoli. Mamma le lucidava con la cera e con quella grande lucidatrice che ronzava con quel rumore stridulo come di un robot domestico. Dopo, arrivava sempre il suo avvertimento: “Non passate subito, che si scivola!” e noi obbedivamo, perché quel pavimento diventava liscio come ghiaccio. Ricordo ancora come mi divertissi a prendere la rincorsa con le ciabattine di feltro e scivolare come se stessi pattinando, da un punto all'altro del corridoio.

Tra le braccia stringevo il mio bambolotto preferito: Winnetou. Non era un giocattolo qualunque. Me lo aveva regalato mio fratello. Un giorno era tornato a casa con quel pacchetto, senza dire nulla a nessuno. Lo aveva comprato con i soldi guadagnati suonando con la sua band. Quando me lo porse, non disse molto, ma il suo sguardo parlava chiaro. Io capii subito: era un gesto importante. Era come se mi avesse detto “ti vedo”, “ti conosco”, “ti voglio bene” senza bisogno di parole.

Avevo il caschetto nero perfetto, tagliato da mamma con precisione sopra le sopracciglia, e uno sguardo serio che non lasciava spazio a distrazioni. Non ero capricciosa, ma sì, lo ammetto: ero esigente. E quel bambolotto, con il vestito frangiato e il nome cucito sul petto, doveva essere trattato con rispetto. Non lo avrei mai portato al mare “si sarebbe sporcato!”  ma nel salotto, o nel corridoio, sopra quella coperta scozzese, sì. Lì era il suo regno. E anche un po’ il mio. Quando arrivavano i miei cugini, correvo a nasconderlo, temendo che potessero portalo via come avevano già fatto con altre cose.

Il mio Winnetou non era biondo, come in certe pubblicità dell’epoca. No, aveva i capelli neri, lunghi, e un’espressione fiera. Come il vero eroe dei romanzi. Lo abbracciavo con forza, come se volessi proteggerlo da tutto. E forse, in quel gesto, c’era anche il mio bisogno di essere protetta.

Quel giorno sorridevo. Non sempre lo facevo davanti alla macchina fotografica, ma quel giorno sì. Nessuno me lo aveva chiesto. Ero felice, semplicemente. Felice di essere lì, con il mio caschetto perfetto, la mia coperta scozzese, il pavimento lucido, il regalo di mio fratello, e il mio Winnetou.

Oggi, riguardando quell’immagine ricreata, mi sembra di sentire ancora il profumo della cera, il ronzio della lucidatrice, la voce di mamma che ci avvertiva, e il calore di quel pomeriggio. E mi accorgo che la memoria non è solo un archivio: è una carezza. Una carezza che arriva da lontano e che sa ancora farmi sorridere.