C’era un’ora del giorno che non si toccava. Un piccolo rito quotidiano, sacro e immutabile: la sigla di Happy Days e la minestrina col brodo di dado e parmigiano. Qualunque cosa stessi facendo, giocare, disegnare, inventare mondi, bastava che la mamma accendesse la televisione nel mobile angolare del salotto, e io correvo. La TV era messa in alto, incastonata in uno scaffale per essere vista da tutti. Più grande di quella della camera da letto di mamma e papà, più importante, più ufficiale.
Ci sedevamo attorno al tavolo rotondo per cena, ognuno al suo posto. Vicino alle pareti, il salotto ci abbracciava: un divano e due poltrone in velluto grigio, con quadretti piccolissimi blu, nocciola e neri. Bastava guardarli troppo a lungo per sentirsi ipnotizzati.
E poi arrivava lei: la minestrina. Con le stelline, gli anellini, la tempestina, o i risoni; che la mamma chiamava “linguette di passero”. Brodo di dado, una pioggia generosa di parmigiano, e un filo d’olio d’oliva. Era il sapore dell’infanzia, della casa, dell’amore che si serve in una ciotola bianca.
Ogni giorno un episodio nuovo. Ogni giorno lo stesso calore. Ogni giorno, Happy Days.
Ah, la sigla di Happy Days!
Quella melodia era come un campanello magico: bastava sentirla e tutto si fermava. Io correvo al tavolo, la minestrina fumante davanti, e cominciavo a cantare con entusiasmo, magari anche un po’ stonata, ma chi se ne importava? Era il mio momento. "Sunday, Monday, Happy Days..."
E poi via, battendo le mani sul tavolo, facendo il coro con mamma e papà, mentre Fonzie faceva il suo ingresso trionfale in giacca di pelle. La mia voce si mescolava al profumo del brodo, al calore della casa, alla luce gialla della lampada accesa dietro il divano. Era più di una canzone: era un inno alla mia infanzia.
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