L’estate era ovunque: nell’aria, nel sudore che pizzicava la pelle, nel rumore della radio che suonava "How deep is your love".
Avevo cinque anni e non c’era sabbia né mare, solo il balconcino del terzo piano e una coperta stesa con le mollette, per fare ombra.
Mamma diceva:
“Facciamo finta che siamo in spiaggia anche noi.” E io credevo a tutto, perché lei era brava a inventare mondi anche con niente.
Indossavo mutandine bianche e canottiera leggera. I sandali li mettevo per forza: lei non voleva vedermi a piedi scalzi. La telefonata arrivava puntuale: era mia zia, che si vantava della partenza imminente per il mare con i suoi figli. Noi no. Mancava la benzina, mancavano le gite, ma non mancava la fantasia.
Sul balcone, con Bongo accanto, costruivamo castelli di sabbia immaginaria. Il secchiello era vuoto, ma pieno di sogni. Il solleone colpiva il muro, ma sotto quella coperta io ero altrove: una spiaggia, un tuffo, una corsa col mio orsacchiotto. E quando arrivava l’ora di pranzo, iniziava la parte che amavo di più: il riposino con mamma.
Io non volevo né dormire né mangiare. Ma lei, con quella dolcezza che solo le madri sanno usare, si stendeva accanto a me, mi faceva il solletico dietro le spalle, mi accarezzava i capelli. Stava con me. E in quel momento il mondo era perfetto. Silenzioso, caldo, nostro. Fino a sera, quando tornava papà.


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