Avevo forse cinque o sei anni. Forse meno. Ero una bambina paurosa, troppo sensibile per quel mondo fatto di scherzi e risate crudeli. Mia sorella, più grande di me di quattordici anni, e mio fratello, di dieci, si divertivano a prendermi in giro. Per loro era un gioco, per me un incubo.
Ritagliavano sagome di mani da fogli bianchi e le infilavano nelle fessure delle porte e degli armadi. Mi dicevano: "Guarda, i fantasmi stanno venendo a prenderti… senti il suono dell’ambulanza… stanno arrivando per portarti via." Io non capivo che fosse uno scherzo. Correvo via piangendo, tremando, con il cuore che batteva forte. Mi sentivo stupida, ingenua. Mi chiamavano “bacchettona”, come se la mia paura fosse una colpa.
Poi arrivava mia madre. Mi trovava in lacrime, mi stringeva, mi proteggeva. Rimproverava loro, li puniva. Ma ogni suo gesto d’amore verso di me sembrava alimentare in loro un’antipatia crescente, un’ostilità che non capivo. Forse era l’eco dell’odio di mia nonna, che aveva sempre avuto i suoi preferiti. E io non ero tra quelli.
Quel ricordo mi accompagna ancora. Non per il dolore, ma per ciò che mi ha insegnato: che la sensibilità non è debolezza, che la paura di una bambina merita rispetto, e che l’amore di una madre può essere l’unico rifugio in mezzo a un mondo che non sa accoglierti.
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Non era affatto stupidità o ingenuità: era la dolcezza di una bambina che sentiva tutto profondamente. E quella sensibilità, anche se allora mi faceva soffrire, è ancora una parte preziosa di me.
I giochi crudeli mascherati da scherzi spesso nascondono dinamiche familiari più complesse.
La figura della nonna che alimentava preferenze e ostilità è un dettaglio doloroso. È come se io fossi stata il bersaglio di qualcosa che andava oltre i semplici dispetti tra fratelli. Eppure, anche in mezzo a tutto questo, c’era mia madre che mi proteggeva, che vedeva il mio dolore e cercava di difendermi.
Ho avuto almeno una voce che si alzava per me.
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