Quando ero piccola, il mio “baule dei giochi” non era di legno intarsiato o con lucchetti dorati. Era un fustino vuoto di detersivo Dixan o Dash. Robusto, con il manico di plastica e il coperchio che si apriva con un “crack” secco. Dentro c’era il mio mondo: bambole spettinate, macchinine con le ruote un po’ storte, costruzioni colorate, e il mio inseparabile Bongo.
Lo tenevo nel corridoio, sopra una coperta stesa a terra. Mi sedevo lì, le gambe incrociate, e tiravo fuori un gioco alla volta, come se stessi scegliendo un gioiello da una scatola preziosa. Negli anni ’80 era così per tanti bambini: niente contenitori di plastica trasparente o scaffali ordinati. Solo un fustino di cartone, che prima aveva lavato i panni di tutta la famiglia… e poi custodiva i sogni di un’infanzia.
Quando arrivavano le visite
Spesso, dopo ore passate seduta sulla mia coperta nel corridoio, mi addormentavo tra i miei giocattoli. Il fustino del Dash era lì accanto, aperto, con i peluche che sbucavano come curiosi spettatori dei miei sogni.
Poi arrivava la voce di mamma: "Dai, rimetti tutto a posto, che stanno per arrivare gli ospiti."
A malincuore, raccoglievo bambole e macchinine, e uno alla volta li infilavo nel fustino. Il mio piccolo tesoro finiva sotto il tavolo del ripostiglio, nascosto come se fosse un segreto da proteggere.
Che seccatura, le visite. Non potevo guardare la TV, nessuno voleva giocare con me, e dovevo pure cambiarmi d’abito. Restavo lì, seduta composta sul divano, ad ascoltare conversazioni di grandi che non capivo, contando i minuti fino a quando avrei potuto liberare di nuovo i miei giochi. Che seccatura, le visite. Non potevo guardare la TV, nessuno voleva giocare con me, e dovevo pure cambiarmi d’abito. Restavo lì, seduta composta sul divano, ad ascoltare conversazioni di grandi che non capivo, contando i minuti fino a quando avrei potuto liberare di nuovo i miei giochi.
Ma quando finalmente se ne andavano… era troppo tardi. A volte restavano anche per cena, e allora la noia diventava infinita. Si faceva buio, poi tardi, e io dovevo andare a dormire perché l’indomani c’era la scuola. Il mio fustino restava chiuso, i giochi prigionieri fino al giorno dopo.
La mattina dopo
La mattina, la sveglia suonava presto. Ancora un po’ assonnata, infilavo il grembiulino azzurro, fresco di bucato, e legavo sotto il mento il fiocchetto rosso a pois. Era il mio “abito da lavoro” di bambina, quello che mi trasformava da sognatrice del corridoio a scolara diligente.
Prendevo la cartella, rossa con i bordi bianchi, e mamma mi accompagnava fino al cancello della scuola. Dentro, il vociare dei compagni, l’odore di matite temperate e quaderni nuovi. Fuori, il mio fustino di giochi restava a casa, sotto il tavolo del ripostiglio, ad aspettarmi. Sapevo che, finito il pomeriggio di compiti, sarei tornata da lui. E allora, finalmente, avrei riaperto il mio piccolo scrigno di tesori.
Ah, quei dettagli che restano impressi più delle stesse lezioni… Il grembiulino azzurro e il fiocchetto rosso potevano anche avere un loro fascino, ma i calzettoni di cotone bianco ricamati erano una piccola tortura quotidiana: il prurito che iniziava appena uscivi di casa e ti accompagnava fino all’ultima campanella. E poi le scarpette di cuoio “occhi di bue” con la cinghietta laterale… belle, sì, ma dopo un’ora già sentivi il bruciore sulle caviglie e le piaghette che ti facevano camminare come su gusci d’uovo.
Il lato scomodo dell’eleganza
Il grembiulino azzurro mi stava a pennello, il fiocchetto rosso a pois era il mio distintivo. Ma sotto, i calzettoni bianchi ricamati iniziavano presto la loro danza di prurito, e le scarpette di cuoio occhi di bue, con la cinghietta stretta, trasformavano ogni passo in una piccola prova di resistenza. Camminavo verso scuola cercando di ignorare il fastidio, contando i passi fino al momento in cui, a casa, avrei potuto liberarmi di tutto e correre scalza sul pavimento fresco.
| “piccoli supplizi” |
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