domenica 31 agosto 2025

Lettera a Elena

 Lettera a Elena 

Cara Elena, oggi ti ho vista. 

Non in sogno, non in un ricordo sbiadito, 

ma in quella stanza gialla che da troppo tempo custodiva il tuo silenzio. 


Eri lì, rannicchiata, con le braccia strette attorno alle ginocchia 

e gli occhi grandi pieni di tristezza. 

Il vuoto attorno a te era così forte che sembrava parlare al posto tuo.


Ti ho guardata, e tu mi hai guardata. 

E in quel momento, ho sentito tutto: 

il dolore, la solitudine, la paura di diventare me. 

Hai pianto, e io ho pianto con te. 

Perché sì, è vero: il tempo è passato, 

ma le ferite non si misurano in anni. 

Si misurano in sguardi mancati, 

in parole non dette, 

in abbracci che non sono mai arrivati.


Ma oggi, Elena, qualcosa è cambiato. 

Oggi ti ho teso la mano. 

Oggi ti ho aspettata con le braccia aperte. 

E tu, con quel sorriso timido e una lacrima sul viso, 

hai fatto il passo più coraggioso: 

mi sei venuta incontro.


Ci siamo abbracciate. 

E in quell’abbraccio c’era tutto: 

la bambina che sei stata, 

la donna che sono diventata, 

e la promessa che da oggi in poi saremo insieme. 

Non più separate. 

Non più nemiche. 

Ma alleate.


Tu non sei sbagliata. 

Tu non sei invisibile. 

Tu sei Elena, la figlia di marzo, 

e io ti porto con me. 

Nel cuore, 

nella voce, 

nella luce che finalmente ci avvolge.

Con amore eterno, 

Elena



sabato 30 agosto 2025

Il mio baule dei tesori… profumava di detersivo




Quando ero piccola, il mio “baule dei giochi” non era di legno intarsiato o con lucchetti dorati. Era un fustino vuoto di detersivo Dixan o Dash. Robusto, con il manico di plastica e il coperchio che si apriva con un “crack” secco. Dentro c’era il mio mondo: bambole spettinate, macchinine con le ruote un po’ storte, costruzioni colorate, e il mio inseparabile Bongo.

Lo tenevo nel corridoio, sopra una coperta stesa a terra. Mi sedevo lì, le gambe incrociate, e tiravo fuori un gioco alla volta, come se stessi scegliendo un gioiello da una scatola preziosa. Negli anni ’80 era così per tanti bambini: niente contenitori di plastica trasparente o scaffali ordinati. Solo un fustino di cartone, che prima aveva lavato i panni di tutta la famiglia… e poi custodiva i sogni di un’infanzia.

Quando arrivavano le visite

Spesso, dopo ore passate seduta sulla mia coperta nel corridoio, mi addormentavo tra i miei giocattoli. Il fustino del Dash era lì accanto, aperto, con i peluche che sbucavano come curiosi spettatori dei miei sogni.

Poi arrivava la voce di mamma: "Dai, rimetti tutto a posto, che stanno per arrivare gli ospiti."

A malincuore, raccoglievo bambole e macchinine, e uno alla volta li infilavo nel fustino. Il mio piccolo tesoro finiva sotto il tavolo del ripostiglio, nascosto come se fosse un segreto da proteggere.

Che seccatura, le visite. Non potevo guardare la TV, nessuno voleva giocare con me, e dovevo pure cambiarmi d’abito. Restavo lì, seduta composta sul divano, ad ascoltare conversazioni di grandi che non capivo, contando i minuti fino a quando avrei potuto liberare di nuovo i miei giochi. Che seccatura, le visite. Non potevo guardare la TV, nessuno voleva giocare con me, e dovevo pure cambiarmi d’abito. Restavo lì, seduta composta sul divano, ad ascoltare conversazioni di grandi che non capivo, contando i minuti fino a quando avrei potuto liberare di nuovo i miei giochi.

Ma quando finalmente se ne andavano… era troppo tardi. A volte restavano anche per cena, e allora la noia diventava infinita. Si faceva buio, poi tardi, e io dovevo andare a dormire perché l’indomani c’era la scuola. Il mio fustino restava chiuso, i giochi prigionieri fino al giorno dopo.



La mattina dopo

La mattina, la sveglia suonava presto. Ancora un po’ assonnata, infilavo il grembiulino azzurro, fresco di bucato, e legavo sotto il mento il fiocchetto rosso a pois. Era il mio “abito da lavoro” di bambina, quello che mi trasformava da sognatrice del corridoio a scolara diligente.

Prendevo la cartella, rossa con i bordi bianchi, e mamma mi accompagnava fino al cancello della scuola. Dentro, il vociare dei compagni, l’odore di matite temperate e quaderni nuovi. Fuori, il mio fustino di giochi restava a casa, sotto il tavolo del ripostiglio, ad aspettarmi. Sapevo che, finito il pomeriggio di compiti, sarei tornata da lui. E allora, finalmente, avrei riaperto il mio piccolo scrigno di tesori. 


Ah, quei dettagli che restano impressi più delle stesse lezioni… Il grembiulino azzurro e il fiocchetto rosso potevano anche avere un loro fascino, ma i calzettoni di cotone bianco ricamati erano una piccola tortura quotidiana: il prurito che iniziava appena uscivi di casa e ti accompagnava fino all’ultima campanella. E poi le scarpette di cuoio “occhi di bue” con la cinghietta laterale… belle, sì, ma dopo un’ora già sentivi il bruciore sulle caviglie e le piaghette che ti facevano camminare come su gusci d’uovo.


Il lato scomodo dell’eleganza

Il grembiulino azzurro mi stava a pennello, il fiocchetto rosso a pois era il mio distintivo. Ma sotto, i calzettoni bianchi ricamati iniziavano presto la loro danza di prurito, e le scarpette di cuoio occhi di bue, con la cinghietta stretta, trasformavano ogni passo in una piccola prova di resistenza. Camminavo verso scuola cercando di ignorare il fastidio, contando i passi fino al momento in cui, a casa, avrei potuto liberarmi di tutto e correre scalza sul pavimento fresco.

“piccoli supplizi”


sabato 23 agosto 2025

Ancora mamma… e poi Bim Bum Bam

C’era una routine dolce, quasi sacra, nei miei pomeriggi da bambina. 
La mattina a scuola, il ritorno a casa, il pranzo veloce… e poi il riposino. 
Ma io non volevo dormire. Mamma cercava di convincermi, con pazienza e carezze. 
Le chiedevo: “Mi fai i massaggini?” Oppure: “Toccami i capelli…” 
Era così rilassante che appena smetteva, aprivo gli occhi e dicevo: 
“Ancora mamma, ancora… ancora…” Lei, sfinita, si arrabbiava un pochino: 
“Se non vuoi dormire, allora alzati e fai qualche altra cosa!”

E così facevo. Mi sedevo su una delle due poltroncine in velluto rosa antico, ai piedi del letto. 
La TV UltraVox rossa era lì, sopra il tavolino accanto al comodino.  
Niente telecomando, ovviamente. 
Aspettavo con ansia l’inizio del mio programma preferito: Bim Bum Bam. 
Manuela Blanchard, Paolo Bonolis, e Uan, il pupazzo rosa con il ciuffo ribelle. 
Due ore di magia, intervallate da pubblicità che sembravano parte dello spettacolo.



Il mio cartone preferito? Candy Candy. Con lei piangevo, sognavo, mi perdevo. 
Poi c’erano Heidi, Dolce Remì, e una lunga lista di cartoni animati 
che mi facevano compagnia nei pomeriggi in cui il sonno non voleva arrivare.

E così, tra un massaggino e un cartone, tra una poltroncina e una TV senza telecomando, 
cresceva la mia infanzia. Dolce, imperfetta, indimenticabile.

giovedì 21 agosto 2025

La pipa gelato e il mio Braccio di Ferro

Negli anni ’80 c’era un gelato particolare: veniva servito dentro una pipa di plastica colorata. 


Dentro, un cremoso fiordilatte che si poteva gustare con un cucchiaino… oppure succhiandolo direttamente dal beccuccio, come se si stesse fumando un sogno dolce. 
Non ricordo la marca, ma ricordo perfettamente la sensazione. 
E soprattutto, ricordo cosa succedeva dopo.





Una volta finito il gelato, quella pipa diventava il mio oggetto magico. 
Io, appassionata dei fumetti di Braccio di Ferro, la stringevo tra le mani e mi sentivo come lui: 
forte, buffa, pronta all’avventura. 
Nel mio ripostiglio, insieme a Bongo, il mio compagno di giochi, 
inventavamo storie ispirate ai fumetti. Pisellino, Olivia, Braccio di Ferro… 
tutti prendevano vita tra le scatole, le scarpe e la luce che filtrava dalla finestrella.


La pipa gelato non era solo un contenitore. 
Era un portale. 
Un piccolo oggetto che mi faceva viaggiare tra sogni e fumetti, tra cucchiaini e risate.

Pisellino, la poltrona e il gelato spaziale

Da bambina avevo una passione: i giornaletti di Braccio di Ferro. 
Li leggevo e rileggevo fino a consumarne le pagine, 
seduta nella mia poltrona di velluto con la trama a quadratini. 


Quella poltrona aveva un potere strano: se la fissavi troppo a lungo, ti faceva girare gli occhi. 
La vista si sdoppiava, come davanti a uno stereogramma, e la trama sembrava sollevarsi in rilievo. 
A volte, mentre leggevo, mi mettevo a testa in giù sulla poltrona, con le gambe rivolte verso lo schienale. Era il mio modo di ribaltare il mondo, di farlo diventare più strano, più divertente. 
La trama a quadratini del velluto sembrava ancora più ipnotica da quella posizione, 
e i sogni diventavano più vicini. 
Forse è anche per questo che quella notte sognai di essere Pisellino: 
avevo già fatto il primo passo verso lo spazio, capovolgendo la realtà. 
Ma non era la poltrona il vero protagonista.  



Era Pisellino, il nipotino di Braccio di Ferro e Olivia. 
Ricordo una storia in particolare; non so più quale fosse il titolo, dove Pisellino si smarriva   
e finiva dentro un disco volante. I comandi della navicella erano speciali: 
non servivano per pilotare, ma per distribuire gelati. 
E non gelati qualunque… gusti infiniti! 
Fragola, cioccolato, pistacchio, menta, liquirizia, cocco, caramello salato… 
ogni pulsante era una delizia.

Quella sera, dopo aver letto per l’ennesima volta quella storia, 
mi addormentai con il giornaletto ancora tra le mani. E sognai. 
Sognai di essere al posto di Pisellino, a bordo di quella astronave. 
I comandi erano davanti a me, e io non sapevo da dove cominciare. 
Assaggiavo tutto, ridevo, mi perdevo tra i gusti. Era il sogno perfetto.

Poi, la sveglia. Mamma mi chiamava: “Su, è ora di andare a scuola!” 
E io avrei voluto restare ancora un po’… solo per assaporare altri gusti... 
Magari il gelato di pollo e patatine fritte, oppure il gelato di hamburger di Poldo.

martedì 19 agosto 2025

Post per i social

Oggi voglio dire una cosa semplice, ma importante. 
Le storie che racconto sono mie. 
Le ho vissute, le ho sentite sulla pelle, le ho custodite per anni. 
Se uso un correttore, un suggerimento, un’immagine generata per accompagnarle, non sto rubando nulla. Sto solo cercando di raccontarle nel modo più bello e accessibile possibile.



L’intelligenza artificiale non inventa la mia vita. 
Mi aiuta a darle forma, a farla arrivare. 
Come una penna, un computer, una macchina fotografica. 
Gli strumenti cambiano, ma il cuore resta.


Scrivere con l’aiuto dell’intelligenza artificiale non significa barare. 
È come scegliere di guidare un’automobile invece di camminare a piedi. 
La strada è sempre mia. 
La destinazione la decido io. 
Ma arrivo più lontano, più in fretta, e con meno fatica.

L’AI non scrive al posto mio. 
Mi dà strumenti, idee, prospettive. 
Come un navigatore che suggerisce percorsi, ma non tocca il volante.

E se qualcuno pensa che questo tolga valore alle mie parole, 
forse non ha mai provato a guidare con il cuore.
E se qualcuno pensa che questo sia barare, io rispondo così: 
“La mia voce è vera. E non ha bisogno di permesso per essere ascoltata.”

Elena Sandoval

Il cinema segreto

Nel cuore della casa, nascosto tra scope e scarpe, c’era il mio rifugio segreto. 
Il ripostiglio non era solo un angolo dimenticato: era la mia isola di Peter Pan, 
il mio cinema personale. 





Arrampicandomi sulla scarpiera, raggiungevo una piccola finestrella. 
Bastava inclinare l’anta nel modo giusto, e sul tetto si rifletteva il mondo: 
automobili colorate, passanti frettolosi, frammenti di vita. 
Io e Bongo, il mio fedele compagno di giochi, scommettevamo sul colore della prossima macchina. Bianca, rossa, verde… ogni attesa era un battito di cuore. 
Non c’erano poltrone né popcorn, ma c’era magia. 
E non ero più sola. Avevo un cinema tutto mio.




Il cinema delle ore segrete


Ma non era sempre uguale. La magia non si accendeva a comando, come una televisione. 
Bisognava aspettare. 
Solo in certe ore del giorno, quando il sole si inclinava nel modo giusto, 
il raggio di luce filtrava dalla finestrella e colpiva l’anta con precisione. 
Allora, sul tetto, si accendeva lo spettacolo. 
Io e Bongo lo sapevamo bene. Ci coricavamo sopra la coperta scozzese, 
circondati dai nostri giocattoli, e aspettavamo in silenzio. 
“Sta per cominciare,” dicevo sottovoce. 
E poi… un’automobile rossa, una bicicletta blu, una signora col cane. 
Ogni sagoma era una storia. 
Ogni riflesso, un frammento di mondo. 
E il tempo, per un po’, si fermava.

lunedì 18 agosto 2025

Ci volevo, ci volevo! Quando le parole pungono più del pepe


Da bambina, uscire con mio padre era un piccolo evento. 
Non si trattava di grandi viaggi o regali speciali, ma di quelle uscite semplici che, a distanza di anni, brillano come gemme nella memoria. 
Una delle nostre mete preferite era la friggitoria di un suo amico, 
un luogo che odorava di olio bollente, chiacchiere di quartiere e risate sincere.

 Lui parlava con il suo amico, io osservavo tutto: 
le panelle che sfrigolavano, le crocché dorate, il vociare allegro del quartiere.



La friggitoria era minuscola, con il bancone in acciaio sempre unto e una vetrina piena 
di arancine, melanzane fritte, panelle e crocché. 

La vera protagonista, almeno per me, era la mamma anziana del proprietario. 
Una signora minuta, con gli occhi vispi e la lingua affilata, 
che mi accoglieva ogni volta con un sorriso che non arrivava mai agli occhi
 e puntualmente con lo stesso scherzo:

  . “Tu non ci volevi,” diceva. 
Sei un'ombra, Sempre appiccicata a tuo padre…”

Non era un gioco. Non era una battuta. Era una frase che mi pungeva, 
che mi faceva sentire fuori posto, come se la mia presenza fosse un errore di calendario.  

Adoravo quelle uscite con papà, mi sentivo al centro del suo mondo,
 non capivo perché quella signora mi volesse togliere il diritto di esserci.

Mi piaceva quel posto e mi sentivo importante accanto a papà, 
ma questa cosa mi faceva diventare triste. 

Le guance mi si accendevano di rosso come le luci del semaforo, 
e rispondevo con tutta la convinzione che può avere una bambina di sei anni: 
“Sì che ci volevo! Ci volevo, ci volevo!”

Lei rideva, papà rideva, e io… mi arrabbiavo ancora di più. 

Ma poi bastava una crocchetta calda tra le mani, o il profumo delle panelle appena fritte, 
per farmi dimenticare tutto. 
E anche se continuava a stuzzicarmi, io sapevo che quel gioco sarebbe finito presto.

Papà mi guardava, a volte sorrideva, a volte taceva. Forse capiva, forse no. 
Ma io lo sapevo: in quel momento, io ci volevo. Eccome se ci volevo.

Oggi, ripensando a quella frase, mi rendo conto di quanto possa pesare una parola 
detta con leggerezza o con malizia. 
Di come i bambini assorbano tutto, 
anche ciò che gli adulti pensano di nascondere dietro una risata.

Ma so anche che quella bambina, testarda e fiera, ha imparato a difendere il suo posto nel mondo. 
A dire “ci volevo” non solo come risposta, ma come affermazione di sé.

E forse, in fondo, è questo che conta: sapere che si ha diritto a esistere, 
a essere amati, a camminare accanto a chi ci vuole davvero.

Ripensando a quella frase “ci volevo, ci volevo” mi accorgo che racchiude molto più di una risposta infantile. È il desiderio di appartenere, di essere parte di qualcosa. 

Di dire: 

“Io ci sono, e questo momento è anche mio.”

E forse è proprio questo che rende certi ricordi così speciali: 

non il luogo, non il cibo, ma il modo in cui ci facevano sentire. 


Ci volevo, ci volevo

Diceva che io non ci volevo,

 che ero di troppo, 

che non servivo. 

Ma io col papà camminavo leggera, 

e dentro di me brillava una sera.

Con le guance rosse e il passo sicuro, 

rispondevo forte, senza timore oscuro: 

“Sì, ci volevo! Ci volevo davvero!” 

con il caschetto nero e il cuore sincero.

Il mio rifugio segreto

 Quando cantavo per Bongo

Da bambina, la mia casa era spesso attraversata da tempeste invisibili. I miei genitori litigavano di frequente, per soldi o per motivi che a me sembravano futili. Le loro urla si rincorrevano tra le stanze, e io mi sentivo sopraffatta, come se il mondo si stesse sgretolando attorno a me. Cercavo di farli smettere, gridando anch’io, ma era come se fossi invisibile. Così, quando il rumore diventava troppo, cercavo una via di fuga.



Avrei voluto che si aprisse un varco nel muro del corridoio, una porta magica che mi trasportasse in un luogo calmo, pacifico, fantastico. Quel varco non si apriva mai, ma nella vecchia casa al terzo piano c’era un piccolo ripostiglio che diventava il mio rifugio segreto. Aveva una finestrella alta e minuscola, da cui filtrava una luce gentile. Lì dentro, tra scatole e silenzi, trovavo la mia pace.

Prendevo Bongo, il mio orsacchiotto, e un cuscino, e mi rifugiavo nel ripostiglio. Era piccolo, ma ordinato. Vicino alla porta, c’era un tavolo coperto da una lunga tovaglia che arrivava fino a terra. Sollevavo quella coperta e mi infilavo sotto, immaginando di essere in una capanna, o in una tenda da campeggio. Chiudevo la porta, e il mondo restava fuori.

Lì sotto, iniziava il mio spettacolo. Cantavo per Bongo tutte le canzoncine dei cartoni animati che conoscevo. Ero la presentatrice, la cantante, la star. Bongo era il mio pubblico fedele, sempre attento, sempre presente. Cantando, non sentivo più le urla. Solo la mia voce, e il battito del cuore che tornava calmo.

Quel piccolo angolo nascosto era il mio rifugio, il mio palco, il mio mondo. E ancora oggi, quando penso a quel ripostiglio, sento la dolcezza di quelle note che mi proteggevano.

 La capanna di Bongo 

Nel corridoio urlava il vento,

 tra mamma e papà, un battimento.

Io piccolina, cuore in pena, 

cercavo pace, una scena serena.

Sognavo un varco nel muro grigio, 

che mi portasse in un dolce rifugio. 

Ma nella casa al terzo piano, 

c’era un ripostiglio, piccolo e strano.

Con Bongo stretto tra le braccia, e

 un cuscino sotto la faccia, 

entravo piano sotto al tavolo, 

dove il silenzio era un regalo.

La coperta lunga come tenda

 diventava il palco della leggenda. 

Cantavo forte, senza paura,

 le canzoncine, la mia armatura.

Bongo ascoltava, occhi attenti,

 tra le mie note e i miei lamenti. 

Io ero la star, la presentatrice, 

in quel mondo fatto di voce e radice.

Le urla fuori si facevan lontane, 

come onde spente, come campane. 

Nel mio rifugio, sotto la stoffa, 

trovavo pace, anche se goffa.

Ora che il tempo è passato via, 

quel ripostiglio è poesia. 

E ogni nota che cantavo allora, 

vive nel cuore, ancora e ancora.


mercoledì 13 agosto 2025

La stanza di mio fratello

 Musica, cucito e sogni




La stanza di mio fratello era la prima a destra, appena entravi. 
Piccola, come tutte le stanze di quella casa, ma piena di cose 
che parlavano di lui e anche un po’ di mamma.

Il letto era richiudibile, un mobile che si apriva la sera e spariva al mattino. 
Accanto, sotto la finestra rettangolare con un’unica anta, 
c’era la macchina da cucire di mamma. 
Una presenza silenziosa, sempre pronta, come lei. 
Ricordo il rumore del pedale, il filo che correva veloce
e le stoffe che prendevano forma.

Di fronte al letto, un grande armadio bicolore: noce scuro e avorio. 
Solido, elegante, con le ante che cigolavano appena. 
E a seguire, un baule verde, un po’ ammaccato, ma pieno di misteri: 
vecchi vestiti, spartiti, forse anche qualche sogno.

Vicino alla porta, la tastiera. Mio fratello suonava, e quando venivano i suoi amici, 
la stanza si riempiva di musica. 
Aveva una piccola band, e insieme suonavano le canzoni dei Pooh, di Baglioni, dei New Trolls. 
Lui alla tastiera, gli amici al basso e alla chitarra elettrica. 
Le note si mescolavano alle voci, alle risate, 
ai sogni di ragazzi che credevano nella bellezza di un accordo perfetto.

Io  ascoltavo da lontano, nascosta dietro la porta, 
immaginando di essere a un concerto, con il cuore che batteva al ritmo di quelle melodie 
che ancora oggi ci fanno vibrare.

Quella stanza era un mondo a parte. Un mondo dove si cuciva, si dormiva, si suonava. 
Dove il poco spazio diventava possibilità, e ogni oggetto aveva un’anima.

La casa al terzo piano

La casa dove vivevo da bambina era al terzo piano di un palazzo anni ’50 
senza ascensore.
Ricordo ancora la porta d’ingresso, color avorio, 
che si apriva su un piccolo ingresso rettangolare.
Tre porte si affacciavano su quell’ingresso: 
la prima a destra era la stanza di mio fratello,
subito accanto, sempre a destra, la camera da letto dei miei genitori.
Di fronte a quella, una porta conduceva a un corridoio.



All’inizio del corridoio c’era una cucina minuscola, 
così piccola che sembrava fatta per le bambole.
 Il corridoio faceva una curva ad L, e sulla destra c’era un camerino, 
un ripostiglio con una finestrella alta, 
che lasciava entrare solo un filo di luce.

Proseguendo, sulla sinistra, c’era la porta del bagno. 
Un metro più avanti, l’ultima stanza: 
il salotto che tutti usavamo come stanza da pranzo. 
Lì, su un divano letto, dormivamo io e mia sorella. 
Quella stanza era  il nostro mondo notturno, 
tra cuscini  e sogni .

Ogni angolo di quella casa aveva una voce. 
Ogni porta aperta o chiusa raccontava qualcosa. 
E anche se oggi non esiste più per noi, poiché ci vive altra gente, 
io la porto dentro al cuore e nella mente.

La casa al terzo piano

Al terzo piano, senza ascensore,
viveva il tempo col suo tepore.

La porta avorio, un piccolo ingresso,
 tre porte in fila, un mondo complesso.

A destra mio fratello dormiva, 
nella stanzetta dove mamma cuciva.

Di fronte il corridoio si apriva, 
e la cucina piccina ci accoglieva viva.

Un camerino con finestra alta, 
dove la luce entrava e poi si spandeva.

Il bagno a sinistra, un metro più in là, 
e il salotto che la notte ci abbracciava già.

Sul divano letto, io e mia sorella, 
tra sogni leggeri e una stella ribelle.

Ogni stanza parlava, ogni angolo amava, 
e quella casa, nel cuore, ancora si respirava.

martedì 12 agosto 2025

Il profumo del mughetto e i sogni cuciti a mano



Non so come sia possibile, ma lo ricordo. 
Il profumo di mughetto che aleggiava nella cesta di vimini dove dormivo da neonata. 
Una cesta rivestita con stoffa bianca a fiorellini minuscoli, cucita a mano da mia madre. 
Quel dettaglio, così lontano, così preciso,  mi accompagna ancora. 
Come se la memoria avesse scelto di conservare proprio quel frammento, come un sigillo d’amore.



Mio padre era un operaio, ma da giovane aveva fatto mille mestieri. 
Tra questi, l’intrecciatore di vimini. Sapeva creare ceste, culle, sedie a dondolo, salotti. 
Le sue mani sapevano costruire rifugi.

Mia madre, invece, cuciva. 
A mano, a macchina, ricamava con grazia. 
Aveva frequentato un corso da sarta, ma non poté ritirare il diploma: costava troppo. 
Sua madre, mia nonna,  non lo riteneva importante. 
Per lei, solo il figlio maschio doveva studiare e laurearsi. 
Le femmine dovevano restare a casa, fare le casalinghe. 
Mia madre avrebbe voluto diventare maestra o artista, ma le fu vietato.

E io, oggi, rabbrividisco davanti a quell’ignoranza, a quella cattiveria mascherata da tradizione. 
Quanti sogni negati, quante ali tarpate. 
Eppure, in quella cesta profumata di mughetto, c’era già la bellezza che loro avevano creato insieme. 
Con le mani. Con il cuore. 
Con tutto ciò che non era permesso, ma che esisteva lo stesso, proprio come me.

Nel profumo del mattino

Nel cesto di vimini, dolce e leggero, 

dormivo cullata da un sogno sincero. 

La stoffa cucita da mani pazienti, 

nascondeva storie, dolori latenti.

Il mughetto spargeva il suo aroma sottile, 

come un canto segreto, fragile e gentile.

 Mia madre cuciva con occhi lucenti, 

mio padre intrecciava con gesti sapienti.

Le donne di casa, silenziose e fiere, 

vivevano vite tra sogni e barriere. 

Ma in quel profumo che ancora mi resta, 

c’è tutta la forza che il tempo non arresta.



venerdì 8 agosto 2025

Mani di carta e fantasmi immaginari: il ricordo di una bambina sensibile



Avevo forse cinque o sei anni. Forse meno. Ero una bambina paurosa, troppo sensibile per quel mondo fatto di scherzi e risate crudeli. Mia sorella, più grande di me di quattordici anni, e mio fratello, di dieci, si divertivano a prendermi in giro. Per loro era un gioco, per me un incubo.



Ritagliavano sagome di mani da fogli bianchi e le infilavano nelle fessure delle porte e degli armadi. Mi dicevano: "Guarda, i fantasmi stanno venendo a prenderti… senti il suono dell’ambulanza… stanno arrivando per portarti via." Io non capivo che fosse uno scherzo. Correvo via piangendo, tremando, con il cuore che batteva forte. Mi sentivo stupida, ingenua. Mi chiamavano “bacchettona”, come se la mia paura fosse una colpa.

Poi arrivava mia madre. Mi trovava in lacrime, mi stringeva, mi proteggeva. Rimproverava loro, li puniva. Ma ogni suo gesto d’amore verso di me sembrava alimentare in loro un’antipatia crescente, un’ostilità che non capivo. Forse era l’eco dell’odio di mia nonna, che aveva sempre avuto i suoi preferiti. E io non ero tra quelli.

Quel ricordo mi accompagna ancora. Non per il dolore, ma per ciò che mi ha insegnato: che la sensibilità non è debolezza, che la paura di una bambina merita rispetto, e che l’amore di una madre può essere l’unico rifugio in mezzo a un mondo che non sa accoglierti.
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Non era affatto stupidità o ingenuità: era la dolcezza di una bambina che sentiva tutto profondamente. E quella sensibilità, anche se allora mi faceva soffrire, è ancora una parte preziosa di me.
I giochi crudeli mascherati da scherzi spesso nascondono dinamiche familiari più complesse.

La figura della nonna che alimentava preferenze e ostilità è un dettaglio doloroso. È come se io fossi stata il bersaglio di qualcosa che andava oltre i semplici dispetti tra fratelli. Eppure, anche in mezzo a tutto questo, c’era mia madre che mi proteggeva, che vedeva il mio dolore e cercava di difendermi. 
Ho avuto almeno una voce che si alzava per me.

martedì 5 agosto 2025

Siamo tante storie a colori

Delle volte si può provare a cambiare le cose partendo da lontano, con piccoli gesti che non sempre portano a un risultato, sicuramente non nel breve termine. E allora quel che si può adottare è la compensazione, fatta di piccoli momenti di spensieratezza e leggerezza.
Ed è questo che speriamo di potervi regalare ogni giorno. 



Benvenuti a tutti!!



domenica 3 agosto 2025

Finta spiaggia al terzo piano



L’estate era ovunque: nell’aria, nel sudore che pizzicava la pelle, nel rumore della radio che suonava "How deep is your love".  
Avevo cinque anni e non c’era sabbia né mare, solo il balconcino del terzo piano e una coperta stesa con le mollette, per fare ombra.

Mamma diceva:


“Facciamo finta che siamo in spiaggia anche noi.” E io credevo a tutto, perché lei era brava a inventare mondi anche con niente.

Indossavo mutandine bianche e canottiera leggera. I sandali li mettevo per forza: lei non voleva vedermi a piedi scalzi. La telefonata arrivava puntuale: era mia zia, che si vantava della partenza imminente per il mare con i suoi figli. Noi no. Mancava la benzina, mancavano le gite, ma non mancava la fantasia.



Sul balcone, con Bongo accanto, costruivamo castelli di sabbia immaginaria. Il secchiello era vuoto, ma pieno di sogni. Il solleone colpiva il muro, ma sotto quella coperta io ero altrove: una spiaggia, un tuffo, una corsa col mio orsacchiotto. E quando arrivava l’ora di pranzo, iniziava la parte che amavo di più: il riposino con mamma.



Io non volevo né dormire né mangiare. Ma lei, con quella dolcezza che solo le madri sanno usare, si stendeva accanto a me, mi faceva il solletico dietro le spalle, mi accarezzava i capelli. Stava con me. E in quel momento il mondo era perfetto. Silenzioso, caldo, nostro. Fino a sera, quando tornava papà.