giovedì 31 luglio 2025

Il gioco negato



I cugini ridevano, si rincorrevano tra le stanze. 
Il tappeto diventava pista, il divano rifugio, e i loro sguardi 
quando si posavano su di me erano taglienti come il vetro. 




“Non puoi giocare,” dicevano. “Vai via.”
 La voce era la loro, ma l’intenzione era quella della nonna. 
La regola tramandata come un comando invisibile.

Io chiedevo piano, con una speranza fragile: “Posso venire a giocare anch’io?” 
Ma bastava uno sguardo storto, una frase sibilata, e quel mondo mi chiudeva la porta.

La nonna osservava, a volte con un sorriso appena accennato. 
“Lasciatela stare,” diceva. Come se fossi troppo poco. 
Troppo silenziosa. Troppo me.


Dove finisce il silenzio, comincia l’abbraccio


Allora tornavo nel mio angolo, seduta vicino alla giara, con Bongo stretto al petto. 
Gli parlavo a voce bassissima. 
“Un giorno giocheremo solo noi. Senza nessuno che ci dica di no.”

E Bongo con la stoffa piena di baci e lacrime ascoltava. Sempre.

La frase che non doveva arrivare



Non era mai semplice andare da lei. Ogni visita richiedeva negoziazioni e malumori. “Andiamo dopo pranzo?”, “Mi fa male la pancia...”, “Possiamo saltare stavolta?” Ma non si saltava mai. La casa della nonna era una tappa obbligata, una parentesi che si apriva e si chiudeva sempre nello stesso modo: con me che mi sentivo fuori posto.

(È come se il tempo si fosse fermato in quell’istante, per dar voce al silenzio della bambina e allo sguardo che cercava un posto nel mondo.)



Quella volta ricordo ogni dettaglio. Le zie sedute in salotto, le gambe accavallate, le mani piene di pettegolezzi e tazzine. Io ero lì, tra una porta e l’altra, a metà tra l’essere presente e l’essere invisibile.

La voce della nonna mi arrivò chiara, anche se non parlava a me. “Gli altri sono belli, tutti. Ognuno con qualcosa di speciale...” Raccontava le doti di ogni nipote come se stesse descrivendo fiori in un giardino. E poi, senza esitazione, disse: “...quella più bruttina, per me, è lei, Elena.”

Il tempo si fermò. Io smisi di respirare, ma nessuno se ne accorse. Mia madre era in bagno. Le zie tacquero. Le parole rimbalzarono tra i muri e mi trovarono, precise.

Non piansi. Non feci rumore. Ma dentro, qualcosa si incrinò. Una crepa sottile tra l’essere e il valore. Un pensiero nuovo: “Forse l’amore si conquista. E io devo ancora meritarmelo.”


La giara che non era per me: L'ingresso della memoria

 


La giara che non era per me: L'ingresso della memoria




Quando chiudo gli occhi, vedo la curva del marciapiede. Sempre lei, morbida e larga, che disegnava il passaggio tra il mondo moderno e la villa antica di fronte. Il portiere ci riconosceva subito, me e mia madre e con un cenno gentile, citofonava a mia nonna. “È arrivata,” diceva, come se quel momento fosse un rito.

Salivamo la prima scalinata, lentamente. Ogni gradino era familiare. L’ascensore ci accoglieva con il suo specchio leggermente macchiato, dove mi guardavo senza sapere ancora chi ero.

Il pianerottolo era ampio, silenzioso. E poi l’ingresso. Rettangolare, solenne. Sulla sinistra, una specchiera dorata che sembrava riflettere solo il passato. Sotto, il tavolino con ripiano di marmo freddo e lucente, come le domeniche invernali. Poco più in là, l’appendiabiti in velluto verde trapuntato, con la mensola per la cappelliera che conteneva segreti invisibili. Il portaombrelli e i bastoni sembravano i soldati silenziosi della casa.

E poi lui: il David. Una statua di marmo su piedistallo, copia perfetta, che mi guardava ogni volta come se mi sfidasse a comprendere qualcosa. Era il passaggio prima del corridoio. Come se dovessi meritarmi l’accesso.

La giara che non era per me



La giara stava lì, accanto alla poltrona, come un piccolo altare domestico. 
Piena di monetine lucenti, brillava sotto la luce che filtrava dalla finestra sul balcone, accanto al carrellino con i bicchieri e i liquori, ordinati come soldatini in attesa.





Ogni estate, quel salotto sembrava un teatro: i miei cugini correvano e ridevano, e lei, mia nonna, regale nella sua sedia a sdraio incastrata fra il mobile anni ’70 e la porta, sorrideva nel vederli infilare le mani nella giara, pescare il bottino e correre via, fieri del loro tesoro. “Quanto più riuscite a prenderne, saranno vostre,” diceva, incoraggiando quella caccia innocente come fosse una sfida magica.

Tutti, tranne me.



A me diceva “Tu no.” Senza spiegazioni, con sadica rabbia. Solo quel divieto sussurrato come fosse ovvio. Io la guardavo con gli occhi gonfi, e la voce rotta: “Ma perché io no?”

Lei sarcasticamente sorrideva appena, lo sguardo altrove. E il mistero rimaneva lì, sospeso fra me e quella giara.


Mi sedevo vicino al balcone, nel punto dove il sole entrava ma non scaldava. Guardavo i miei cugini tuffarsi nel gioco, le loro mani affondare nella giara come se fosse un pozzo di felicità. Ridevano, si passavano le monetine, si contavano i tesori. E io, invece, contavo le volte in cui lei mi diceva “Tu no.”

“Ma perché io no?” La mia voce non tremava. Era piccola, ma precisa. Lei, mia nonna, non rispondeva mai. Spostava lo sguardo, sistemava un bicchiere sul carrellino, si versava il liquore come fosse tutto normale.

Il mio cuore era un corridoio lungo, in cui le domande rimbalzavano senza trovare porte. Un nodo mi stringeva la gola, mi sembrava di non riuscire a respirare, e cercavo con tutte le mie forze di non far uscire le lacrime. Non c’era rabbia, né scenate. Solo quel senso di essere fuori dal quadro. Come se la cornice non mi appartenesse.

mercoledì 30 luglio 2025

“La figlia di marzo”

La bambina invisibile



“La memoria non è polvere: è radice.” C’è chi nasce atteso. C’è chi nasce temuto. E poi c’è chi nasce dopo una ferita, come se il destino volesse ancora provare a fiorire. Così sono nata io: Elena Sandoval. Tra la nobiltà dimenticata e i sorrisi mancati, ho camminato sul bordo del cuore degli altri. E adesso, cammino al centro del mio.  

La luce era bianca, sospesa, e nella stanza si respirava un’attesa che non sapeva dove posarsi. Dopo dieci anni, nessuno aspettava più nulla. I vecchi panni di neonato erano stati regalati, dimenticati come le parole di un libro letto troppo presto. Eppure, quel giorno, le mani di mia madre tremavano mentre toccavano il nuovo corredino: filo bianco, nido di lana, profumo di lavanda. 

Io sono nata in una clinica dalle finestre alte, dove i rumori si spegnevano nel rispetto della vita che ricominciava. Lei mi ha stretto come si tiene una promessa troppo bella per essere vera. I suoi occhi erano increduli, ma le braccia sapevano già tutto. Mia madre non diceva nulla. Le bastava il silenzio del cuore.


Mio nonno, barone decaduto col cappello impolverato, aveva lasciato da poco il suo salone: tagliava i capelli ai vigili urbani, tra pettegolezzi e sigarette senza filtro. Quando seppe che ero nata, si alzò piano dalla sedia consumata e disse: "Le Sandoval sanno sempre quando fare ritorno." Nessuno capì se stesse parlando di me, o della dignità che aveva perduto.


Mio padre, instancabile operaio di giorni che finivano sempre troppo tardi, arrivò trafelato. Mi guardò come si guarda qualcosa che non si osa desiderare, e poi sorrise. Per la prima volta lo sentii vicino, senza fatica.


Gli zii, i cugini, le sorelle... arrivarono a uno a uno, con lo sguardo stropicciato e l’anima confusa. “Pensavamo che fosse finita,” dicevano. Ma io ero lì. Con gli occhi grandi, e nessuna intenzione di passare inosservata.

La bambina che non doveva nascere

 

Una piccola anima delicata, immersa nei suoi colori.

Mi hanno detto che sono nata il giorno sbagliato. Che ero di troppo, che ero il peso di un cuore già stanco. Ma la vita non ha chiesto il permesso: ha aperto le braccia e mi ha lasciata entrare. Ero una bambina silenziosa, con gli occhi grandi e le domande cucite dentro. Gli altri parlavano di me come si parla di una stanza chiusa. Era come se nessuno volesse davvero aprirmi la porta.

Crescevo tra sguardi incrociati, tra bisbigli che non mi appartenevano, tra “non dire” e “non fare”. Ma mia madre, Angela Marchesi, mi guardava come si guarda un giardino fiorito nel mezzo della polvere. Lei è stata la mia prima casa. E io il suo piccolo miracolo.

E mio nonno, Renato Marchesi, il primo che mi ha insegnato il significato della nobiltà. Non quella scritta nei documenti, ma quella che abita nei gesti. Quando veniva a trovarci, ascoltava la lirica a occhi chiusi, fumando in silenzio e poi ci diceva: “Portate alto il nome. Ricordatevi da dove venite.”

Oggi, scrivo per onorare quel nome. E per dare voce a quella bambina che non doveva nascere ma che ha scelto di restare.

Chi sono

 


Mi chiamo Elena Sandoval. Sono nata dopo una ferita, come se la vita volesse insistere sul miracolo. Questo blog è la mia voce, il mio spazio, la memoria sussurrata delle donne che hanno camminato prima di me e la forza di quelle che verranno. Benvenuti nel mio cuore. 

Discendente della famiglia Sandoval da parte di mio padre; 

 

Uomini silenziosi, donne che lasciavano messaggi nei gesti. E della linea materna dei Marchesi, legata alla Sicilia più arcana: ulivi, segreti, ferro e miele. Questo spazio è dedicato a loro e a me: per ricordare, per immaginare, per riscrivere.

lunedì 28 luglio 2025

Nel silenzio, io




Ho pianto.

Non lo nego. E non me ne scuso.

Le lacrime non sono debolezza:
sono prove. Di vita, di presenza.

Mi sono toccata il viso, non per nascondere,
ma per ricordarmi che esisto.
Ogni gesto, anche il più piccolo, è mio.
Ogni sospiro, ogni tremore.

A volte vorrei gridare…
Ma poi ascolto quel silenzio che resta dopo
quel vuoto che non fa paura perché è mio.
E ora sono qui. 
 Non intera, forse, Ma vera, sì. 
 E se la verità è fragilità… allora, la mia fragilità 
è la cosa più forte che ho.