sabato 27 settembre 2025

A scuola con stile: il bon ton che resta nel cuore

Il galateo del pollo

Alle elementari, ogni tanto, ci facevano fare refezione. Una grande aula piena di banchi diventava mensa, e a turno le maestre portavano i pasti. Noi bambini ci sedevamo ordinati, ognuno con il proprio piatto fumante davanti. Io aspettavo con impazienza il giorno fortunato: quello del pollo con le patatine. Oppure i ravioli al ragù. O la cotoletta con spinaci e patate lesse. Ma il pollo… quello era il mio preferito.

Quel giorno, il pollo era nel mio piatto. La maestra passava tra i banchi, controllava che mangiassimo, che non lasciassimo nulla. Quando arrivò da me, si fermò. Mi osservò in silenzio. Poi sorrise.

Io, piccola com’ero, non toccavo il pollo con le mani. Usavo coltello e forchetta, con precisione. Ripulivo l’osso alla perfezione, senza una sbavatura. Il grembiule? Impeccabile. Mentre gli altri tornavano a casa con macchie di sugo e patatine schiacciate, io sembravo uscita da una lezione di bon ton.

La bambina col fiocco rosa e la maestra che sorride: Quando anche il pollo raccontava chi eri.
La bambina col fiocco rosa e la maestra che sorride:
Quando anche il pollo raccontava chi eri.

All’uscita, la maestra raccontò tutto a mia madre. Disse che era incredibile, che a quell’età io conoscessi le regole del galateo. Mamma si illuminò. Quella sera, a tavola, lo raccontò a papà e alla famiglia. Era orgogliosa. E io, nel mio piccolo, lo ero anche.

Piccole eleganze

Non era solo questione di buone maniere. Era il mio modo di stare nel mondo: con grazia, con attenzione, con rispetto. Anche davanti a un pollo con le patatine.

E tu?

Hai un ricordo della mensa scolastica che ti ha lasciato il segno? Un piatto preferito, una maestra che ti ha osservato con sorpresa, un gesto che ti ha fatto sentire speciale? Scrivimi, raccontami, condividi: perché anche a tavola, da bambini, imparavamo chi un giorno saremo diventati.

giovedì 25 settembre 2025

La Smorfia del Primo Banco

Ricordi di scuola, tra fiocchi bianchi e risate sincere

Il primo giorno delle elementari profumava di carta nuova, di matite appena temperate e di emozioni che non sapevo ancora nominare. Il grembiule blu mi pizzicava il collo, il fiocco bianco sembrava troppo grande per il mio petto piccolo. Ma io mi sentivo importante. Non ero più una bambina d’asilo: ero una scolara. Una piccola donna con grandi intenzioni.

La maestra si chiamava Maria. Aveva un gilet beige, una camicetta con i fiori e una voce che sapeva di miele e ammonimento. «Tu, con quella smorfietta, siediti al primo banco.» Io? Al primo banco? Perfetto. Da lì avrei potuto dominare la scena.

Bambini in uniforme blu con fiocchi bianchi davanti alla scuola, accompagnati dalla maestra sorridente
Bambini in uniforme blu con fiocchi bianchi davanti alla scuola, 
accompagnati dalla maestra sorridente.

I compagni erano quindici, ma io li contavo come personaggi di una commedia. C’era quello che piangeva ancora per la mamma, quella che già scriveva in corsivo, e quello che mangiava le gomme da cancellare come fossero caramelle.

Poi arrivò il momento della foto. «Fate un bel sorriso!» Io non lo feci. Feci una smorfia. Una di quelle che dice: “Io so già come va il mondo.”

Quando la mamma vide la foto, si arrabbiò. «Perché hai fatto le smorfie? Lo sai che rimarrai così per sempre nel ricordo dei tuoi compagni?» Io la guardai, con la stessa smorfia. Perché lo sapevo. E mi piaceva.

Li facevo ridere. E quando ridevano, io mi sentivo luminosa. Come se il primo banco fosse un palcoscenico, e io la protagonista di una commedia che sapeva già come far breccia nei cuori. 

E tu?

Hai una foto di classe che ti racconta? Hai fatto una smorfia, un sorriso timido, o eri quello che si nascondeva dietro il compagno più alto? Scrivimi, raccontami, condividi: perché le storie dell’infanzia sono le più vere, e le più luminose.

Sabato pomeriggio le impronte nere sul muro e la lezione imparata

 Le impronte nere sul muro e la lezione imparata

Avevo cinque o sei anni quando vidi in TV il film La baronessa di Carini. Quella scena in cui la baronessa, uccisa dal marito geloso, lasciava l’impronta della mano sul muro mi rimase impressa come un marchio. Non riuscivo a togliermela dalla testa.

Un pomeriggio, mentre giocavo con Bongo nel ripostiglio, mi venne un’idea. Lì c’era l’armadietto delle scarpe di tutta la famiglia. Papà teneva dentro la pomata nera per lucidarle, la spazzola e i ritagli di stoffa. Io aprii quel contenitore come se fosse un tesoro proibito. Presi la spazzola, intinsi le mani nel lucido e me le sporcai tutte. Ricordo ancora l’odore forte, pungente.

Una bimba con sorrisetto vispo che sporcava il muro con le impronte delle sue manine

Poi, con la serietà di un’attrice, andai nel corridoio e cominciai a lasciare impronte di mani sul muro, una dopo l’altra, dal ripostiglio fino al salotto. Mi sembrava di rivivere la scena del film. Io ero la baronessa, e quelle erano le mie tracce indelebili.

Mamma non si accorse di nulla. Ma quando papà tornò dal lavoro, vide subito il disastro: il ripostiglio in disordine, la pomata aperta, la spazzola a terra. Poi alzò lo sguardo e trovò le impronte nere sul muro. Non potevano essere di nessun altro se non mie.

Il suo volto cambiò colore. Mi sgridarono, e presi anche qualche schiaffo sulle mani e sul sederino. Io piansi, chiesi scusa, e capii che avevo esagerato. Papà dovette ridipingere tutto il corridoio.

Quel giorno imparai che i giochi hanno un limite, e che non tutto ciò che colpisce la fantasia può essere ripetuto nella realtà. Ma imparai anche che la mia immaginazione era più forte di me: bastava un film, un orsetto e un barattolo di lucido per trasformare un pomeriggio qualunque in una scena indimenticabile.

Tutti da bambini abbiamo combinato qualche marachella. A volte ci è costata una sgridata, altre volte una risata. Ma ogni piccolo disastro è diventato un ricordo che oggi ci fa sorridere. E voi? Qual è stata la vostra “impronta sul muro” che ancora ricordate?

mercoledì 24 settembre 2025

Il vestitino cucito da mamma

 Crescere è anche imparare a dire no con dolcezza.

Mamma era brava con la macchina da cucire. Una vera sarta, anche se non lo diceva mai ad alta voce. Aveva mani precise, occhi pieni di idee e una pazienza che sembrava infinita. Ogni tanto, tra una commissione e l’altra, cuciva per me: vestitini, grembiulini, fiocchi, piccoli capi che portavano il suo tocco. Ma il mio preferito era quello scozzese nocciola, una salopette con la gonna, da mettere sopra il maglioncino lupetto blu. Mi faceva sentire elegante, ordinata, e soprattutto… libera.

Libera dalle codine.

Perché sì, mamma insisteva con le codine. Diceva che così rimanevo pettinata e ordinata a lungo. Ma io le detestavo. Mi tiravano i capelli, mi facevano male alla cute, e quando le scioglievo, i capelli restavano con una forma strana, come se avessero litigato con la spazzola.

Un giorno, dopo l’ennesima battaglia davanti allo specchio, dissi: “Basta! Rivoglio il mio caschetto pettinato e ordinato.”


Un pomeriggio nel ripostiglio, tra elastici e fantasia
Un pomeriggio nel ripostiglio, tra elastici e fantasia

Mamma si arrese. Ma era triste. Aveva appena comprato una scatola piena di elastici per codine: fiorellini, dadi, caramelle, orsetti… più me li mostrava, più io correvo a nascondermi. Lei cercava di convincermi, io mi barricavo dietro le sedie.

Allora le proposi un accordo: “Tu non mi metti più in testa quei piccoli strumenti di tortura, e io ti permetto di usarli su Bongo.”

Bongo era il mio orsetto di peluche. Paziente, silenzioso, sempre pronto a collaborare. Mamma scoppiò a ridere. Era divertita dalla mia proposta. E così mi diede tutti i ferma codine per giocare.

Quel pomeriggio, nel ripostiglio, nacque il mio primo salone di bellezza. Bongo entrava, si accomodava su una sediolina fatta con uno scatolo di scarpe, che poi diventava il lavandino. Gli facevo lo shampoo, lo asciugavo, lo pettinavo… anche se non aveva capelli, io li immaginavo. Le sue orecchie diventavano ciocche vaporose, da decorare con elastici a forma di fiore, cubetti colorati, caramelle finte.

Io indossavo il mio vestitino scozzese nocciola, cucito da mamma. Il caschetto era perfetto, ordinato, libero. E Bongo, con le orecchie piene di ferma codine, sembrava uscito da una sfilata.

Quel pomeriggio non era solo un gioco. Era una piccola vittoria, una trattativa affettuosa, un modo per dire “voglio essere me stessa” senza fare la guerra. E mamma, con la sua ironia e la sua fantasia, aveva capito che avrei vinto lo stesso. Mi aveva cucito un vestitino, ma anche un momento di libertà. E Bongo, con le sue orecchie decorate, era il testimone silenzioso di quella complicità.

La regina di carta

 Il mio Carnevale all’asilo, senza maschera ma con tanta fantasia

Non sempre servono costumi scintillanti per sentirsi parte della festa. A volte bastano un grembiulino bianco, un fiocco azzurro e una corona di carta fatta con amore. In questo racconto vi porto in un giorno di Carnevale all’asilo, dove l’assenza di un costume diventa occasione per scoprire il potere della creatività e delle piccole attenzioni. 

Era Carnevale, e quasi tutti i bambini in classe avevano un costume: principesse, cowboy, pagliacci, supereroi. Io no. Avevo il mio grembiulino bianco, il fiocco azzurro a pois bianchi, e basta. Non mi sentivo esclusa, ma un po’ diversa sì.

Le maestre, dolcissime, mi guardarono e si misero subito all’opera. Con cartoncini colorati mi crearono una corona rosa e verde, e una mascherina verde che copriva appena gli occhi. Mi dissero: “Oggi sei la regina della fantasia.”

Mi sedetti al centro della foto, con le codine e il sorriso timido. Attorno a me, i bambini nei loro costumi. Ma io mi sentivo speciale, perché quella corona non era comprata: era fatta per me, con le mani e il cuore.

Le maestre mi avevano improvvisato una maschera di carta e la coroncina per carnevale


Quel giorno ho imparato che non serve avere tutto per sentirsi parte. Basta qualcuno che ti guarda, ti ascolta, e ti crea qualcosa con le mani. La mia corona di carta era più preziosa di qualsiasi costume, perché era fatta di attenzione, di cura, di affetto. E forse, da allora, ho sempre cercato di fare lo stesso con gli altri: offrire piccole cose che fanno sentire grandi. 

Il pongo, i chiodini colorati e i giochi all'asilo

All’asilo, i pomeriggi erano pieni di colori. Le maestre ci facevano usare il pongo, i pastelli a cera, le costruzioni e il gioco dei chiodini colorati. Io adoravo sistemarli in ordine, creando fiori, casette, spirali. Avevo il mio grembiulino bianco, il fiocco azzurro a pois, e le codine ben strette. Mi sentivo piccola ma importante, come se ogni pezzetto di plastica fosse una parte del mio mondo.

La brioscina della zia Rita

 Gelato, codine e carezze dopo l’operazione

Dopo l’operazione alle tonsille ero diventata molto magra. Non volevo mangiare. L’inappetenza era legata anche alla noia, alla monotonia. Mi sentivo svuotata. Avevo le codine, anche se i capelli erano ancora corti. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo.

Quel giorno andai a casa della zia Rita, la sorella di papà. Lei era sempre gentile con me. Non sapeva cosa offrirmi prima. Mi guardava con quegli occhi pieni di premura, come se volesse riempire quel vuoto che avevo dentro.

Un momento di dolcezza che ha fatto tornare la voglia di sorridere, La brioscina della zia Rita,

Un momento di dolcezza che ha fatto tornare la voglia di sorridere.

Sapeva che mi piaceva il gelato al cioccolato. Così mi preparò una brioscina con gelato al gusto cacao, vaniglia e con tanta panna. La mise su un piattino, con un cucchiaino piccolo, e mi disse: “Mangia piano, tesoro. È tutto per te.”

Gli zii avevano un cane grande, che somigliava a Lessie, il cane protagonista di un noto telefilm degli anni ’80. Era buono, silenzioso, e mi guardava mentre mangiavo, come se capisse che quel momento era speciale.

Quella brioscina fu il primo vero sapore dopo giorni di nulla. E in quel gesto, in quella merenda, c’era tutto l’amore che serviva per ricominciare. 

Le piccole attenzioni hanno un potere immenso. Non servono gesti grandiosi per far sentire qualcuno amato: basta una merenda preparata con cura, una frase gentile, una presenza silenziosa. E negli anni ’80, quando i pomeriggi erano scanditi dai telefilm come “Lessie” o “La casa nella prateria”, quei gesti avevano un sapore ancora più autentico. Oggi, ricordarli è come riassaporare un cucchiaino di gelato al cacao: dolce, profondo, e pieno di memoria.

martedì 23 settembre 2025

Le spirali nel cielo

 Il mio intervento da bambina e le luci che non se ne andavano

Avevo sei anni quando le tonsille smisero di lasciarmi vivere. Erano talmente gonfie che non riuscivo più a bere nemmeno l’acqua. Respirare era difficile, soffrivo anche di adenoidi. Era un incubo. Decisero di operarmi.

Ricordo la clinica. Buia, angusta, con le finestre alte. Le camere erano immerse in una penombra che mi faceva sentire ancora più piccola. Mi fecero l’anestesia. Entrai in sala operatoria.

Vedevo spirali colorate nei muri e nel cielo

Quando mi risvegliai, mamma era lì accanto. Seduta su una sedia, con la mano sulla mia fronte. Indossava una gonna grigia sotto il ginocchio, scarpe nere col tacco basso, un maglioncino nocciola abbinato al cardigan. I capelli erano freschi di parrucchiere, ordinati, profumati. Era il suo modo di darmi forza: essere presente, bella, rassicurante. Non disse molto, ma il suo sguardo parlava per lei.

Quando mi risvegliai, dissi a mia madre che volevo mangiare una minestra con i broccoli. Che poi, io i broccoli li odiavo. Ma lo dissi lo stesso. Nel farlo, mi uscì sangue dalla gola. Mi dissero che non dovevo parlare, né mangiare, né bere. Dovevo aspettare.

Ma la cosa più strana fu l’effetto dell’anestesia. Guardando i muri, vedevo luci colorate che giravano vorticosamente. Spirali di luce, come se il mondo si fosse trasformato in un caleidoscopio. Questo effetto mi durò per mesi. Mi capitava soprattutto prima di addormentarmi, fissando un muro qualsiasi.

Vedevo spirali colorate nei muri e nel cielo

Una volta mi successe anche in sogno. Era notte. Guardavo il cielo, e vedevo quelle stesse luci colorate che giravano, formando spirali sopra le montagne. Era inquietante. Non ho mai saputo spiegare cosa fosse. Forse un residuo dell’anestesia, forse qualcosa che la mia mente aveva trasformato in visione.

Oggi, di quel periodo, mi rimane solo quel brutto ricordo. Ma anche la consapevolezza che, da bambina, ho attraversato qualcosa di difficile. E che l’ho superato.

Vedevo spirali colorate nei muri e nel cielo


sabato 13 settembre 2025

La Pantera Rosa Bongo e il Postalmarket di mamma

 Pesci di carta e sogni fritti

Era l’ora dei cartoni animati. Quella volta guardavo un episodio della Pantera Rosa. Ricordo bene la scena: la pantera apriva il frigorifero, ma era vuoto. Allora prendeva un giornale, ritagliava una sagoma a forma di pesce, lo metteva in padella… e quel pesce di carta diventava vero. Emanava persino profumo!

L’idea mi sembrò geniale. Appena finì l’episodio, corsi a cercare una rivista. Dovevo ritagliare anch’io un pesce. Poi ne feci altri. Li portai nel ripostiglio, dove io e Bongo avevamo steso la nostra coperta. Era il nostro angolo segreto. Presi di nascosto una padella dalla cucina, e cominciammo a “cuocere” i nostri pesci di carta. Ridevamo, fingevamo di mangiare a sazietà. Era tutto finto, ma sembrava vero.

Pesci di carta fritti

Il problema fu che avevo usato il Postalmarket di mamma. Senza chiederle il permesso. Tutte le mamme dell’epoca avevano un Postalmarket in casa. Era un grosso rivistone pieno di articoli da comprare per posta. Non esisteva internet, figuriamoci l’e-commerce. Le televendite sarebbero arrivate di lì a poco, con Dallas e Dynasty a fare da sfondo.

Quando mamma si accorse dei ritagli, si arrabbiò un pochino. Ma poi, con quel suo modo dolce e pratico, mi disse: “Ti do quelli vecchi, scaduti. Così puoi giocare quanto vuoi.” Da quell’episodio imparai una cosa importante: prima di toccare qualcosa di mamma, dovevo chiederle il permesso.

Il mio primo pesce e il brodino più buono del mondo

Papà, i gamberetti sotto sale e un piccolo trucco d’amore 

Papà aveva la passione per la pesca. Spesso andava da solo, ma qualche volta mi portava con lui. Ci sedevamo sulla banchina, in silenzio, e lui preparava le lenze con una pazienza infinita. Io lo osservavo, affascinata e un po’ schifata. Le esche mi facevano senso, soprattutto i vermi. Viscidi, contorti, vivi. Non riuscivo nemmeno a guardarli troppo a lungo.

Papà lo sapeva. Mi diceva: “Se non impari a mettere le esche, non sarai mai brava a pescare. Un buon pescatore deve sapere innescare le esche!” Io ci provavo, ma niente. Il disgusto era più forte di me.

Allora, un giorno, papà preparò per me delle esche speciali: gamberetti sotto sale. Avevano un odore pungente, ma almeno non si muovevano. Quelli riuscivo a toccarli, a metterli nell’amo, anche se con un po’ di esitazione. Era il suo modo di farmi sentire capace, senza forzarmi.

Ricordo il mio primo pesce. In realtà aveva abboccato alla lenza di papà

Ricordo il mio primo pesce. In realtà aveva abboccato alla lenza di papà. Ma lui, con un gesto teatrale e pieno d’amore, mi passò la lenza tra le mani: “Dai, tira! Lo hai preso! Avvolgi la lenza, su forza!” Io lo feci, con il cuore che batteva forte. E così, avevo “pescato” il mio primo pesce.

Tornando a casa, raccontammo tutto a mamma. Io parlavo a raffica, e papà faceva l’occhiolino a lei. Si misero a ridere, complici. Io mi sentivo felice, importante, parte di qualcosa.

Mamma preparò un brodino di pesce, e con quello mi fece la pastina. Era buonissima. Ma non solo per il sapore. Era buona perché quel pesce, in qualche modo, l’avevo preso io.

venerdì 12 settembre 2025

La fidanzata di mio fratello

 Quando la sorpresa era lei

Un abbraccio con la ragazza di mio fratello

Mio fratello aveva una fidanzata che sembrava uscita da una copertina. Somigliava a Madonna, la cantante. Aveva i capelli biondi, pieni di boccoli, che appuntava da un lato con un fermaglio. Gli occhi erano azzurri, grandi, luminosi. Si erano conosciuti a scuola, e quando veniva a trovarci a casa, per me era come se arrivasse una stella.

Mi portava sempre qualcosa: caramelle, patatine con la sorpresa, piccoli oggetti colorati. Ma la vera sorpresa era lei. L’aspettavo affacciata al balcone, con il cuore che batteva forte. Quando suonava al citofono, correvo subito dietro la porta. Appena entrava, le saltavo addosso. Letteralmente. Le abbracciavo le gambe, poi la vita, poi mi arrampicavo in braccio. Rideva, mi stringeva, e io ero felice.

Ricordo quel suo vestito verde sagomato, che finiva appena sopra al ginocchio. Aveva una cinturina sottile in vita, e quando si sedeva sulla poltrona, io mi sedevo in braccio a lei. Le toccavo le unghie lunghe e curate, lucide, perfette. Mi sembravano quelle di una fata. Lei parlava con mamma del più e del meno, e io restavo lì, in braccio a lei, come se fossi parte del suo vestito.

Poi, quando si faceva ora di andare, mi salutava con dolcezza. E io correvo al balcone per salutarla ancora, mentre scendeva le scale. Le facevo ciao con la mano, e lei mi guardava dal basso, sorridendo. Quel momento era mio. Solo mio. Oggi sono sposati. Hanno due figli. E ogni tanto, quando la vedo, mi torna in mente quel vestito verde, le sue unghie curate, e la mia corsa verso la porta. Perché certe emozioni non si dimenticano: si trasformano, crescono, ma restano sempre lì, come una carezza che ha messo radici.

Fischi, gelsomini e capelli d’angelo

 Un pomeriggio a casa dei nonni, tra divieti e carezze


Ci sono pomeriggi che restano impressi nella memoria come fotografie senza cornice. Non hanno bisogno di essere incorniciati, perché vivono nei dettagli: un profumo, un gesto, un sapore. Questo è uno di quei pomeriggi.

Mamma doveva fare una visita medica di controllo, e mi lasciò dai nonni. Non mi piaceva andare dalla nonna. Era severa, distante. Aveva una collezione di bambolotti vestiti a maglia, con cappellini all’uncinetto che realizzava lei stessa, tutti esposti come in una vetrina. Guai a toccarli. Potevo solo guardarli, e da lontano. Si sedeva nella sua sdraio preferita, tipica di quegli anni, rossa intrecciata con tubolari di gomma, guai a sedersi li, era il suo trono da regina! Da lì dominava tutto e tutti. In realtà io nemmeno ci tenevo ad avvicinarmi a quella sdraio lasciava sulla pelle certi segni, che ci volevano ore perché se ne andassero.

La nonna nella sua sdraio preferita


Quel giorno però, tornò dal lavoro il nonno. E tutto cambiò.
Il nonno mi trattava bene. Aveva una grande pianta di gelsomino all’angolo del balcone, che curava con amore. Quel pomeriggio le stava dando acqua. In alto, sul muro vicino alla pianta, c’era una gabbietta con un cardellino. Fischiava in modo meraviglioso. Il nonno si avvicinava alla gabbia fischiettando, e il cardellino rispondeva. Poi lui avvicinava i baffi alla gabbietta, e il cardellino li beccava piano. Era uno scambio affettuoso di fischi e baci. Io restavo lì, incantata. Era il mio spettacolo.


Il nonno tra fischi, baffi e gelsomini


Dopo, il nonno si mise ai fornelli. Preparava i capelli d’angelo, quei fili sottilissimi che cuociono in tre minuti. Li faceva “alla carrettiera”, come diceva lui, una ricetta tipica di Gibellina, il suo paese d’origine. Pelava i pomodori, soffriggeva l’aglio nell’olio d’oliva, aggiungeva tanto formaggio grattugiato e una generosa spolverata di pepe nero. Poi si sedeva al tavolino, con il piatto fumante e un bicchiere di vino rosso. Mi guardava e diceva: “Ne vuoi un po’?” Io, all’inizio, dicevo di no. Poi la mangiavo con lui. Era buonissima, anche se piccantina.

Il nonno, io e gli spaghetti piccantini

Quando mamma arrivava a prendermi, andavamo a salutare la nonna, che stava nella sua stanzetta degli hobbies, in fondo alla casa, vicino alla camera da letto. In macchina, raccontavo a mamma tutto: il cardellino, i baffi del nonno, la pasta alla carrettiera. E così, eravamo già di ritorno verso casa.

venerdì 5 settembre 2025

Cartapesta, stoffe e fantasia: l’oratorio di mia sorella

Mia sorella era più grande di me di quattordici anni. Per me era un po’ come una seconda mamma, ma anche una figura magica, piena di idee e di entusiasmo. Faceva parte di un gruppo della parrocchia, dove si svolgeva l’oratorio. Lei e il suo ragazzo animavano le giornate dei bambini del quartiere, e io, piccola, ci stavo in mezzo come una mascotte silenziosa ma curiosa.

Quei pomeriggi all'oratorio in compagnia


Organizzavano di tutto: mostre di disegno a tema, teatrini improvvisati, e soprattutto laboratori di marionette di cartapesta. Ricordo ancora l’odore della colla fatta in casa, il rumore delle mani che impastavano la carta, e la gioia di vedere nascere un volto da un mucchio di stracci e giornali. Ogni bambino partecipava, me compresa. Le marionette si dipingevano con colori vivaci, si vestivano con pezzi di stoffa recuperati da vecchi abiti, tende, ritagli. Ogni dettaglio era frutto di fantasia e collaborazione.

Poi arrivava il momento dello spettacolo. Il teatrino era fatto con teli appesi e bastoni di legno, e dietro le quinte c’era un fermento che sembrava quello di un vero palcoscenico. Si recitavano scenette divertenti, si cantava, si rideva tanto. Non c’erano microfoni, luci, effetti speciali. C’era solo la voglia di stare insieme, di creare qualcosa dal nulla, di sentirsi parte di un piccolo mondo.

Oggi, quando vedo certi giochi digitali o laboratori super attrezzati, penso a quel tempo in cui bastava un po’ di cartapesta, qualche pennello, e tanta immaginazione. E penso a mia sorella, con la sua energia contagiosa, che riusciva a trasformare un pomeriggio qualunque in un’avventura collettiva.

Era un modo per tenersi impegnati, sì. Ma era anche un modo per imparare a stare insieme, a condividere, a inventare. E io, piccola com’ero, mi sentivo grande ogni volta che la mia marionetta prendeva vita tra le mani.

Il caschetto perfetto e Winnetou sul plaid scozzese

Un giorno mio fratello arrivò a casa con una sorpresa per me

Era un Cicciobello indiano si chiamava Winnetou, lo avevo visto in una rivista e mi piaceva molto. Senza dire nulla a nessuno era andato a comprarmelo con i soldi che aveva guadagnato suonando con la sua band. Winnetou era diventato il mio nuovo compagno di giochi.


La bambina e la sua bambola fra le braccia

Nel salotto di casa, dove la luce del pomeriggio filtrava obliqua tra le tende, me ne stavo seduta a gambe incrociate sopra la solita coperta scozzese. Il pavimento sotto di me non era di legno, ma di quelle mattonelle tipo marmo, con minuscoli pezzetti colorati incastonati come coriandoli. Mamma le lucidava con la cera e con quella grande lucidatrice che ronzava con quel rumore stridulo come di un robot domestico. Dopo, arrivava sempre il suo avvertimento: “Non passate subito, che si scivola!” e noi obbedivamo, perché quel pavimento diventava liscio come ghiaccio. Ricordo ancora come mi divertissi a prendere la rincorsa con le ciabattine di feltro e scivolare come se stessi pattinando, da un punto all'altro del corridoio.

Tra le braccia stringevo il mio bambolotto preferito: Winnetou. Non era un giocattolo qualunque. Me lo aveva regalato mio fratello. Un giorno era tornato a casa con quel pacchetto, senza dire nulla a nessuno. Lo aveva comprato con i soldi guadagnati suonando con la sua band. Quando me lo porse, non disse molto, ma il suo sguardo parlava chiaro. Io capii subito: era un gesto importante. Era come se mi avesse detto “ti vedo”, “ti conosco”, “ti voglio bene” senza bisogno di parole.

Avevo il caschetto nero perfetto, tagliato da mamma con precisione sopra le sopracciglia, e uno sguardo serio che non lasciava spazio a distrazioni. Non ero capricciosa, ma sì, lo ammetto: ero esigente. E quel bambolotto, con il vestito frangiato e il nome cucito sul petto, doveva essere trattato con rispetto. Non lo avrei mai portato al mare “si sarebbe sporcato!”  ma nel salotto, o nel corridoio, sopra quella coperta scozzese, sì. Lì era il suo regno. E anche un po’ il mio. Quando arrivavano i miei cugini, correvo a nasconderlo, temendo che potessero portalo via come avevano già fatto con altre cose.

Il mio Winnetou non era biondo, come in certe pubblicità dell’epoca. No, aveva i capelli neri, lunghi, e un’espressione fiera. Come il vero eroe dei romanzi. Lo abbracciavo con forza, come se volessi proteggerlo da tutto. E forse, in quel gesto, c’era anche il mio bisogno di essere protetta.

Quel giorno sorridevo. Non sempre lo facevo davanti alla macchina fotografica, ma quel giorno sì. Nessuno me lo aveva chiesto. Ero felice, semplicemente. Felice di essere lì, con il mio caschetto perfetto, la mia coperta scozzese, il pavimento lucido, il regalo di mio fratello, e il mio Winnetou.

Oggi, riguardando quell’immagine ricreata, mi sembra di sentire ancora il profumo della cera, il ronzio della lucidatrice, la voce di mamma che ci avvertiva, e il calore di quel pomeriggio. E mi accorgo che la memoria non è solo un archivio: è una carezza. Una carezza che arriva da lontano e che sa ancora farmi sorridere.

giovedì 4 settembre 2025

Un giorno diverso. Io e mia cugina

Era un giorno d’estate, ma non uno qualunque. 
Quel giorno aveva qualcosa di speciale, come se il sole stesso avesse deciso di brillare solo per noi.

La telefonata arrivò al mattino: zia Anna aveva chiamato mamma. 
«Abbiamo una cabina al mare, perché non venite con Elena? 
Così vi svagate un po’ e le bambine giocano insieme.» Io ero felicissima. 
Avevo una cugina più piccola con cui andavo molto d’accordo: Lei bionda, con i boccoli, sempre allegra.

Io e mia cugina al mare


Mamma mi infilò il costumino intero azzurro, quello che pizzicava un po’ sulle spalle ma che mi faceva sentire grande. Poi prese il salvagente a forma di cigno, bianco e gonfio, con il collo elegante e il becco arancione.

Le borse erano piene: asciugamani arrotolati, tovaglie a quadretti, crema solare che profumava di cocco. Tutto l’occorrente per una giornata al mare, come se bastasse quel piccolo inventario per costruire la felicità.

Io la guardavo, mentre sistemava ogni cosa con gesti sicuri. Era il suo modo di dire: “Ti proteggo, anche tra le onde.”

Papà era al lavoro e ci avrebbe raggiunte più tardi. Noi partimmo con il pullman, chiacchierando e ridendo.

Appena arrivammo, l’odore della spiaggia mi travolse: salsedine, crema solare, patatine fritte… sembrava di essere in un film, tipo Sapore di mare. 
Nel juke box suonavano Self Control di Raf, Fotoromanza di Gianna Nannini, 
Un’estate al mare di Giuni Russo. 
C’erano i videogiochi con le monetine: Donkey Kong era il nostro preferito. 
Una partita costava 200 lire, una canzone altre 200, un ghiacciolo alla fragola 300. 
Con meno di mille lire, eri regina del divertimento.

Un jukebox che suonava

Io non sapevo ancora nuotare, andavo poco al mare. Mia cugina, anche se più piccola, usava già i braccioli. Facevamo castelli di sabbia mentre mamma e zia Anna parlavano fitto fitto, con quella complicità che solo le sorelle hanno. 

Mamma e zia che parlavano sotto l'ombrellone

Il sole scendeva lento, e io pensavo che forse, un giorno, avrei imparato a nuotare. Ma per allora, bastava la sabbia.

Poi arrivava papà, stanco dal lavoro ma felice di vederci. Si sedeva al tavolino con lo zio e gli amici, e giocavano a carte. Il sole calava piano, e arrivava l’ora del rientro.

Salivamo sulla Cinquecento di mamma, quella bianca con un riflesso verde acqua, il primo modello. A casa, mamma mi faceva il bagnetto per togliere il sale, mi metteva la canottiera e i pantaloncini bianchi, e andava a preparare la cena. Io, stanca ma felice, mangiavo e poi mi addormentavo nel letto dei miei genitori, con il cuore pieno di sabbia, mare e amore.

Quel giorno era volato. Diverso dagli altri, che scorrevano lenti e uguali. Quel giorno era una piccola vacanza dentro la vita.

martedì 2 settembre 2025

Happy Days e minestrina

 C’era un’ora del giorno che non si toccava. Un piccolo rito quotidiano, sacro e immutabile: la sigla di Happy Days e la minestrina col brodo di dado e parmigiano. Qualunque cosa stessi facendo, giocare, disegnare, inventare mondi, bastava che la mamma accendesse la televisione nel mobile angolare del salotto, e io correvo. La TV era messa in alto, incastonata in uno scaffale per essere vista da tutti. Più grande di quella della camera da letto di mamma e papà, più importante, più ufficiale.

Quella calda atmosfera delle serate davanti alla tv con una buona minestra fumante


Ci sedevamo attorno al tavolo rotondo per cena, ognuno al suo posto. Vicino alle pareti, il salotto ci abbracciava: un divano e due poltrone in velluto grigio, con quadretti piccolissimi blu, nocciola e neri. Bastava guardarli troppo a lungo per sentirsi ipnotizzati.

E poi arrivava lei: la minestrina. Con le stelline, gli anellini, la tempestina, o i risoni; che la mamma chiamava “linguette di passero”. Brodo di dado, una pioggia generosa di parmigiano, e un filo d’olio d’oliva. Era il sapore dell’infanzia, della casa, dell’amore che si serve in una ciotola bianca.

Ogni giorno un episodio nuovo. Ogni giorno lo stesso calore. Ogni giorno, Happy Days.

Ah, la sigla di Happy Days!  

Quella melodia era come un campanello magico: bastava sentirla e tutto si fermava. Io correvo al tavolo, la minestrina fumante davanti, e cominciavo a cantare con entusiasmo, magari anche un po’ stonata, ma chi se ne importava? Era il mio momento. "Sunday, Monday, Happy Days..."

E poi via, battendo le mani sul tavolo, facendo il coro con mamma e papà, mentre Fonzie faceva il suo ingresso trionfale in giacca di pelle. La mia voce si mescolava al profumo del brodo, al calore della casa, alla luce gialla della lampada accesa dietro il divano. Era più di una canzone: era un inno alla mia infanzia.

Sotto il letto di mio fratello

La stanzetta di mio fratello era un mondo a parte. Lui aveva dieci anni più di me, e una collezione di giornaletti che sembrava infinita. Io adoravo i fumetti della Disney: Qui, Quo, Qua, le Giovani Marmotte, e naturalmente Topolino. Ogni tanto me ne prestava qualcuno, e ci sdraiavamo insieme sul suo letto a leggere. Lui era immerso nei suoi gialli, io nei miei mondi colorati. Ma il momento più divertente arrivava quando la mamma mi chiamava: “Elena, vieni a mangiare la minestrina!” Io non volevo. Allora mi infilavo sotto il letto, trattenendo il fiato, e lui, complice, rispondeva: “Elena non c’è, è uscita.” La mamma prima si arrabbiava, poi rideva. E io, sotto il letto, ridevo anch’io.   

"Ci sono letti che diventano astronavi. E fratelli che sanno pilotarle con un sorriso."

Io, mio fratello e i giornaletti

Nella cameretta di mio fratello c’era sempre un’atmosfera speciale. Quella cameretta era il nostro mondo. Un luogo dove i fumetti diventavano portali, le coperte fortezze e l’amore fraterno una complicità silenziosa che ancora oggi mi scalda il cuore.


Il mio fratello radioamatore


Mio fratello radioamatore

Mio fratello era un vulcano di idee. Mi raccontava storie inventate, barzellette che mi facevano ridere fino alle lacrime, e indovinelli che mi lasciavano a pensare per ore. Ma la cosa più bella era che non ero solo sua sorella: ero la sua complice. Soprattutto quando faceva scherzi alla mamma. Io ridevo sotto i baffi, lui faceva finta di essere serio, e la mamma… prima si arrabbiava, poi rideva anche lei.

Aveva un talento naturale per la musica: suonava, canticchiava, improvvisava. Ma il suo mondo segreto era fatto di fili, circuiti e voci lontane. Era un radioamatore. Nella sua stanza c’era una ricetrasmittente anni ’80, con quel filo attorcigliato come una molla che sembrava vivo. Lo vedevo seduto lì, con le cuffie, a parlare con persone invisibili. Usava termini tecnici che per me erano formule magiche: 

“CQ CQ, qui I0XYZ, passo.” Non esistevano ancora cellulari o smartphone. Quello era il suo modo per viaggiare senza muoversi, per avere amici sparsi nel mondo, per sentirsi parte di qualcosa più grande.

Io lo guardavo, incantata. E pensavo che mio fratello fosse un po’ mago, un po’ astronauta, un po’ inventore. E io, la sua piccola assistente, pronta a seguirlo ovunque.


lunedì 1 settembre 2025

Lettera a mio padre

 Caro papà,


Non so bene da dove cominciare, ma sento il bisogno di parlarti.
Anche se non sei più qui con me, la tua presenza continua a vivere nei miei pensieri,
nei sogni, nei gesti quotidiani. Ho sognato di te, e quel sogno mi ha toccato profondamente. 
Ti ho visto giocare dei numeri al lotto, vincere, e piangere 
dicendomi che potevi stare tranquillo per altri nove anni. 
Quelle parole mi sono rimaste dentro. 
Come se mi stessi dicendo che posso andare avanti, che sei fiero di me, 
che mi proteggi ancora.

Mi manchi. Mi manca il tuo sguardo, il tuo modo di parlare, anche i tuoi silenzi. 
A volte vorrei poterti raccontare tutto: le paure, le scelte, le gioie. 
Vorrei sapere cosa ne pensi, se sto facendo bene, se ti sto onorando come figlia.

Ci sono momenti in cui sento il tuo abbraccio invisibile. 
Come quando mi fermo a guardare il cielo, o quando ascolto una canzone che ti piaceva. 
E ci sono giorni in cui il dolore è più forte, ma anche lì, sento che tu ci sei.

Questa lettera è il mio modo per dirti grazie. 
Grazie per quello che mi hai insegnato, per l’amore che mi hai dato, 
per la forza che mi hai lasciato. 
E se c’è qualcosa che non ti ho detto abbastanza, è questo: 
ti voglio bene. Sempre.

Con amore, Elena

Padre e figlia una foto ricordo

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