sabato 13 settembre 2025

La Pantera Rosa Bongo e il Postalmarket di mamma

 Pesci di carta e sogni fritti

Era l’ora dei cartoni animati. Quella volta guardavo un episodio della Pantera Rosa. Ricordo bene la scena: la pantera apriva il frigorifero, ma era vuoto. Allora prendeva un giornale, ritagliava una sagoma a forma di pesce, lo metteva in padella… e quel pesce di carta diventava vero. Emanava persino profumo!

L’idea mi sembrò geniale. Appena finì l’episodio, corsi a cercare una rivista. Dovevo ritagliare anch’io un pesce. Poi ne feci altri. Li portai nel ripostiglio, dove io e Bongo avevamo steso la nostra coperta. Era il nostro angolo segreto. Presi di nascosto una padella dalla cucina, e cominciammo a “cuocere” i nostri pesci di carta. Ridevamo, fingevamo di mangiare a sazietà. Era tutto finto, ma sembrava vero.

Il problema fu che avevo usato il Postalmarket di mamma. Senza chiederle il permesso. Tutte le mamme dell’epoca avevano un Postalmarket in casa. Era un grosso rivistone pieno di articoli da comprare per posta. Non esisteva internet, figuriamoci l’e-commerce. Le televendite sarebbero arrivate di lì a poco, con Dallas e Dynasty a fare da sfondo.

Quando mamma si accorse dei ritagli, si arrabbiò un pochino. Ma poi, con quel suo modo dolce e pratico, mi disse: “Ti do quelli vecchi, scaduti. Così puoi giocare quanto vuoi.” Da quell’episodio imparai una cosa importante: prima di toccare qualcosa di mamma, dovevo chiederle il permesso.

Il mio primo pesce e il brodino più buono del mondo

Papà, i gamberetti sotto sale e un piccolo trucco d’amore 

Papà aveva la passione per la pesca. Spesso andava da solo, ma qualche volta mi portava con lui. Ci sedevamo sulla banchina, in silenzio, e lui preparava le lenze con una pazienza infinita. Io lo osservavo, affascinata e un po’ schifata. Le esche mi facevano senso, soprattutto i vermi. Viscidi, contorti, vivi. Non riuscivo nemmeno a guardarli troppo a lungo.

Papà lo sapeva. Mi diceva: “Se non impari a mettere le esche, non sarai mai brava a pescare. Un buon pescatore deve sapere innescare le esche!” Io ci provavo, ma niente. Il disgusto era più forte di me.

Allora, un giorno, papà preparò per me delle esche speciali: gamberetti sotto sale. Avevano un odore pungente, ma almeno non si muovevano. Quelli riuscivo a toccarli, a metterli nell’amo, anche se con un po’ di esitazione. Era il suo modo di farmi sentire capace, senza forzarmi.


Ricordo il mio primo pesce. In realtà aveva abboccato alla lenza di papà. Ma lui, con un gesto teatrale e pieno d’amore, mi passò la lenza tra le mani: “Dai, tira! Lo hai preso! Avvolgi la lenza, su forza!” Io lo feci, con il cuore che batteva forte. E così, avevo “pescato” il mio primo pesce.

Tornando a casa, raccontammo tutto a mamma. Io parlavo a raffica, e papà faceva l’occhiolino a lei. Si misero a ridere, complici. Io mi sentivo felice, importante, parte di qualcosa.

Mamma preparò un brodino di pesce, e con quello mi fece la pastina. Era buonissima. Ma non solo per il sapore. Era buona perché quel pesce, in qualche modo, l’avevo preso io.

venerdì 12 settembre 2025

La fidanzata di mio fratello

 Quando la sorpresa era lei


Mio fratello aveva una fidanzata che sembrava uscita da una copertina. Somigliava a Madonna, la cantante. Aveva i capelli biondi, pieni di boccoli, che appuntava da un lato con un fermaglio. Gli occhi erano azzurri, grandi, luminosi. Si erano conosciuti a scuola, e quando veniva a trovarci a casa, per me era come se arrivasse una stella.

Mi portava sempre qualcosa: caramelle, patatine con la sorpresa, piccoli oggetti colorati. Ma la vera sorpresa era lei. L’aspettavo affacciata al balcone, con il cuore che batteva forte. Quando suonava al citofono, correvo subito dietro la porta. Appena entrava, le saltavo addosso. Letteralmente. Le abbracciavo le gambe, poi la vita, poi mi arrampicavo in braccio. Rideva, mi stringeva, e io ero felice.

Ricordo quel suo vestito verde sagomato, che finiva appena sopra al ginocchio. Aveva una cinturina sottile in vita, e quando si sedeva sulla poltrona, io mi sedevo in braccio a lei. Le toccavo le unghie lunghe e curate, lucide, perfette. Mi sembravano quelle di una fata. Lei parlava con mamma del più e del meno, e io restavo lì, in braccio a lei, come se fossi parte del suo vestito.

Poi, quando si faceva ora di andare, mi salutava con dolcezza. E io correvo al balcone per salutarla ancora, mentre scendeva le scale. Le facevo ciao con la mano, e lei mi guardava dal basso, sorridendo. Quel momento era mio. Solo mio. Oggi sono sposati. Hanno due figli. E ogni tanto, quando la vedo, mi torna in mente quel vestito verde, le sue unghie curate, e la mia corsa verso la porta. Perché certe emozioni non si dimenticano: si trasformano, crescono, ma restano sempre lì, come una carezza che ha messo radici.

Fischi, gelsomini e capelli d’angelo

 Un pomeriggio a casa dei nonni, tra divieti e carezze


Ci sono pomeriggi che restano impressi nella memoria come fotografie senza cornice. Non hanno bisogno di essere incorniciati, perché vivono nei dettagli: un profumo, un gesto, un sapore. Questo è uno di quei pomeriggi.

Mamma doveva fare una visita medica di controllo, e mi lasciò dai nonni. Non mi piaceva andare dalla nonna. Era severa, distante. Aveva una collezione di bambolotti vestiti a maglia, con cappellini all’uncinetto che realizzava lei stessa, tutti esposti come in una vetrina. Guai a toccarli. Potevo solo guardarli, e da lontano.



Quel giorno però, tornò dal lavoro il nonno. E tutto cambiò.
Il nonno mi trattava bene. Aveva una grande pianta di gelsomino all’angolo del balcone, che curava con amore. Quel pomeriggio le stava dando acqua. In alto, sul muro vicino alla pianta, c’era una gabbietta con un cardellino. Fischiava in modo meraviglioso. Il nonno si avvicinava alla gabbia fischiettando, e il cardellino rispondeva. Poi lui avvicinava i baffi alla gabbietta, e il cardellino li beccava piano. Era uno scambio affettuoso di fischi e baci. Io restavo lì, incantata. Era il mio spettacolo.




Dopo, il nonno si mise ai fornelli. Preparava i capelli d’angelo, quei fili sottilissimi che cuociono in tre minuti. Li faceva “alla carrettiera”, come diceva lui, una ricetta tipica di Gibellina, il suo paese d’origine. Pelava i pomodori, soffriggeva l’aglio nell’olio d’oliva, aggiungeva tanto formaggio grattugiato e una generosa spolverata di pepe nero. Poi si sedeva al tavolino, con il piatto fumante e un bicchiere di vino rosso. Mi guardava e diceva: “Ne vuoi un po’?” Io, all’inizio, dicevo di no. Poi la mangiavo con lui. Era buonissima, anche se piccantina.


Quando mamma arrivava a prendermi, andavamo a salutare la nonna, che stava nella sua stanzetta degli hobbies, in fondo alla casa, vicino alla camera da letto. In macchina, raccontavo a mamma tutto: il cardellino, i baffi del nonno, la pasta alla carrettiera. E così, eravamo già di ritorno verso casa.

venerdì 5 settembre 2025

Cartapesta, stoffe e fantasia: l’oratorio di mia sorella

Mia sorella era più grande di me di quattordici anni. Per me era un po’ come una seconda mamma, ma anche una figura magica, piena di idee e di entusiasmo. Faceva parte di un gruppo della parrocchia, dove si svolgeva l’oratorio. Lei e il suo ragazzo animavano le giornate dei bambini del quartiere, e io, piccola, ci stavo in mezzo come una mascotte silenziosa ma curiosa.



Organizzavano di tutto: mostre di disegno a tema, teatrini improvvisati, e soprattutto laboratori di marionette di cartapesta. Ricordo ancora l’odore della colla fatta in casa, il rumore delle mani che impastavano la carta, e la gioia di vedere nascere un volto da un mucchio di stracci e giornali. Ogni bambino partecipava, me compresa. Le marionette si dipingevano con colori vivaci, si vestivano con pezzi di stoffa recuperati da vecchi abiti, tende, ritagli. Ogni dettaglio era frutto di fantasia e collaborazione.

Poi arrivava il momento dello spettacolo. Il teatrino era fatto con teli appesi e bastoni di legno, e dietro le quinte c’era un fermento che sembrava quello di un vero palcoscenico. Si recitavano scenette divertenti, si cantava, si rideva tanto. Non c’erano microfoni, luci, effetti speciali. C’era solo la voglia di stare insieme, di creare qualcosa dal nulla, di sentirsi parte di un piccolo mondo.

Oggi, quando vedo certi giochi digitali o laboratori super attrezzati, penso a quel tempo in cui bastava un po’ di cartapesta, qualche pennello, e tanta immaginazione. E penso a mia sorella, con la sua energia contagiosa, che riusciva a trasformare un pomeriggio qualunque in un’avventura collettiva.

Era un modo per tenersi impegnati, sì. Ma era anche un modo per imparare a stare insieme, a condividere, a inventare. E io, piccola com’ero, mi sentivo grande ogni volta che la mia marionetta prendeva vita tra le mani.

Il caschetto perfetto e Winnetou sul plaid scozzese

Un giorno mio fratello arrivò a casa con una sorpresa per me

Era un Cicciobello indiano si chiamava Winnetou, lo avevo visto in una rivista e mi piaceva molto. Senza dire nulla a nessuno era andato a comprarmelo con i soldi che aveva guadagnato suonando con la sua band. Winnetou era diventato il mio nuovo compagno di giochi.



Nel salotto di casa, dove la luce del pomeriggio filtrava obliqua tra le tende, me ne stavo seduta a gambe incrociate sopra la solita coperta scozzese. Il pavimento sotto di me non era di legno, ma di quelle mattonelle tipo marmo, con minuscoli pezzetti colorati incastonati come coriandoli. Mamma le lucidava con la cera e con quella grande lucidatrice che ronzava con quel rumore stridulo come di un robot domestico. Dopo, arrivava sempre il suo avvertimento: “Non passate subito, che si scivola!” e noi obbedivamo, perché quel pavimento diventava liscio come ghiaccio. Ricordo ancora come mi divertissi a prendere la rincorsa con le ciabattine di feltro e scivolare come se stessi pattinando, da un punto all'altro del corridoio.

Tra le braccia stringevo il mio bambolotto preferito: Winnetou. Non era un giocattolo qualunque. Me lo aveva regalato mio fratello. Un giorno era tornato a casa con quel pacchetto, senza dire nulla a nessuno. Lo aveva comprato con i soldi guadagnati suonando con la sua band. Quando me lo porse, non disse molto, ma il suo sguardo parlava chiaro. Io capii subito: era un gesto importante. Era come se mi avesse detto “ti vedo”, “ti conosco”, “ti voglio bene” senza bisogno di parole.

Avevo il caschetto nero perfetto, tagliato da mamma con precisione sopra le sopracciglia, e uno sguardo serio che non lasciava spazio a distrazioni. Non ero capricciosa, ma sì, lo ammetto: ero esigente. E quel bambolotto, con il vestito frangiato e il nome cucito sul petto, doveva essere trattato con rispetto. Non lo avrei mai portato al mare “si sarebbe sporcato!”  ma nel salotto, o nel corridoio, sopra quella coperta scozzese, sì. Lì era il suo regno. E anche un po’ il mio. Quando arrivavano i miei cugini, correvo a nasconderlo, temendo che potessero portalo via come avevano già fatto con altre cose.

Il mio Winnetou non era biondo, come in certe pubblicità dell’epoca. No, aveva i capelli neri, lunghi, e un’espressione fiera. Come il vero eroe dei romanzi. Lo abbracciavo con forza, come se volessi proteggerlo da tutto. E forse, in quel gesto, c’era anche il mio bisogno di essere protetta.

Quel giorno sorridevo. Non sempre lo facevo davanti alla macchina fotografica, ma quel giorno sì. Nessuno me lo aveva chiesto. Ero felice, semplicemente. Felice di essere lì, con il mio caschetto perfetto, la mia coperta scozzese, il pavimento lucido, il regalo di mio fratello, e il mio Winnetou.

Oggi, riguardando quell’immagine ricreata, mi sembra di sentire ancora il profumo della cera, il ronzio della lucidatrice, la voce di mamma che ci avvertiva, e il calore di quel pomeriggio. E mi accorgo che la memoria non è solo un archivio: è una carezza. Una carezza che arriva da lontano e che sa ancora farmi sorridere.

giovedì 4 settembre 2025

Un giorno diverso. Io e mia cugina

Era un giorno d’estate, ma non uno qualunque. 
Quel giorno aveva qualcosa di speciale, come se il sole stesso avesse deciso di brillare solo per noi.

La telefonata arrivò al mattino: zia Anna aveva chiamato mamma. 
«Abbiamo una cabina al mare, perché non venite con Elena? 
Così vi svagate un po’ e le bambine giocano insieme.» Io ero felicissima. 
Avevo una cugina più piccola con cui andavo molto d’accordo: Lei bionda, con i boccoli, sempre allegra.



Mamma mi infilò il costumino intero azzurro, quello che pizzicava un po’ sulle spalle ma che mi faceva sentire grande. Poi prese il salvagente a forma di cigno, bianco e gonfio, con il collo elegante e il becco arancione.

Le borse erano piene: asciugamani arrotolati, tovaglie a quadretti, crema solare che profumava di cocco. Tutto l’occorrente per una giornata al mare, come se bastasse quel piccolo inventario per costruire la felicità.

Io la guardavo, mentre sistemava ogni cosa con gesti sicuri. Era il suo modo di dire: “Ti proteggo, anche tra le onde.”

Papà era al lavoro e ci avrebbe raggiunte più tardi. Noi partimmo con il pullman, chiacchierando e ridendo.

Appena arrivammo, l’odore della spiaggia mi travolse: salsedine, crema solare, patatine fritte… sembrava di essere in un film, tipo Sapore di mare. 
Nel juke box suonavano Self Control di Raf, Fotoromanza di Gianna Nannini, 
Un’estate al mare di Giuni Russo. 
C’erano i videogiochi con le monetine: Donkey Kong era il nostro preferito. 
Una partita costava 200 lire, una canzone altre 200, un ghiacciolo alla fragola 300. 
Con meno di mille lire, eri regina del divertimento.


Io non sapevo ancora nuotare, andavo poco al mare. Mia cugina, anche se più piccola, usava già i braccioli. Facevamo castelli di sabbia mentre mamma e zia Anna parlavano fitto fitto, con quella complicità che solo le sorelle hanno. 


Il sole scendeva lento, e io pensavo che forse, un giorno, avrei imparato a nuotare. Ma per allora, bastava la sabbia.

Poi arrivava papà, stanco dal lavoro ma felice di vederci. Si sedeva al tavolino con lo zio e gli amici, e giocavano a carte. Il sole calava piano, e arrivava l’ora del rientro.

Salivamo sulla Cinquecento di mamma, quella bianca con un riflesso verde acqua, il primo modello. A casa, mamma mi faceva il bagnetto per togliere il sale, mi metteva la canottiera e i pantaloncini bianchi, e andava a preparare la cena. Io, stanca ma felice, mangiavo e poi mi addormentavo nel letto dei miei genitori, con il cuore pieno di sabbia, mare e amore.

Quel giorno era volato. Diverso dagli altri, che scorrevano lenti e uguali. Quel giorno era una piccola vacanza dentro la vita.

martedì 2 settembre 2025

Happy Days e minestrina

 C’era un’ora del giorno che non si toccava. Un piccolo rito quotidiano, sacro e immutabile: la sigla di Happy Days e la minestrina col brodo di dado e parmigiano. Qualunque cosa stessi facendo, giocare, disegnare, inventare mondi, bastava che la mamma accendesse la televisione nel mobile angolare del salotto, e io correvo. La TV era messa in alto, incastonata in uno scaffale per essere vista da tutti. Più grande di quella della camera da letto di mamma e papà, più importante, più ufficiale.



Ci sedevamo attorno al tavolo rotondo per cena, ognuno al suo posto. Vicino alle pareti, il salotto ci abbracciava: un divano e due poltrone in velluto grigio, con quadretti piccolissimi blu, nocciola e neri. Bastava guardarli troppo a lungo per sentirsi ipnotizzati.

E poi arrivava lei: la minestrina. Con le stelline, gli anellini, la tempestina, o i risoni; che la mamma chiamava “linguette di passero”. Brodo di dado, una pioggia generosa di parmigiano, e un filo d’olio d’oliva. Era il sapore dell’infanzia, della casa, dell’amore che si serve in una ciotola bianca.

Ogni giorno un episodio nuovo. Ogni giorno lo stesso calore. Ogni giorno, Happy Days.

Ah, la sigla di Happy Days!  

Quella melodia era come un campanello magico: bastava sentirla e tutto si fermava. Io correvo al tavolo, la minestrina fumante davanti, e cominciavo a cantare con entusiasmo, magari anche un po’ stonata, ma chi se ne importava? Era il mio momento. "Sunday, Monday, Happy Days..."

E poi via, battendo le mani sul tavolo, facendo il coro con mamma e papà, mentre Fonzie faceva il suo ingresso trionfale in giacca di pelle. La mia voce si mescolava al profumo del brodo, al calore della casa, alla luce gialla della lampada accesa dietro il divano. Era più di una canzone: era un inno alla mia infanzia.

Sotto il letto di mio fratello

La stanzetta di mio fratello era un mondo a parte. Lui aveva dieci anni più di me, e una collezione di giornaletti che sembrava infinita. Io adoravo i fumetti della Disney: Qui, Quo, Qua, le Giovani Marmotte, e naturalmente Topolino. Ogni tanto me ne prestava qualcuno, e ci sdraiavamo insieme sul suo letto a leggere. Lui era immerso nei suoi gialli, io nei miei mondi colorati. Ma il momento più divertente arrivava quando la mamma mi chiamava: “Elena, vieni a mangiare la minestrina!” Io non volevo. Allora mi infilavo sotto il letto, trattenendo il fiato, e lui, complice, rispondeva: “Elena non c’è, è uscita.” La mamma prima si arrabbiava, poi rideva. E io, sotto il letto, ridevo anch’io.   

"Ci sono letti che diventano astronavi. E fratelli che sanno pilotarle con un sorriso."


Nella cameretta di mio fratello c’era sempre un’atmosfera speciale. Quella cameretta era il nostro mondo. Un luogo dove i fumetti diventavano portali, le coperte fortezze e l’amore fraterno una complicità silenziosa che ancora oggi mi scalda il cuore.


Il mio fratello radioamatore



Mio fratello era un vulcano di idee. Mi raccontava storie inventate, barzellette che mi facevano ridere fino alle lacrime, e indovinelli che mi lasciavano a pensare per ore. Ma la cosa più bella era che non ero solo sua sorella: ero la sua complice. Soprattutto quando faceva scherzi alla mamma. Io ridevo sotto i baffi, lui faceva finta di essere serio, e la mamma… prima si arrabbiava, poi rideva anche lei.

Aveva un talento naturale per la musica: suonava, canticchiava, improvvisava. Ma il suo mondo segreto era fatto di fili, circuiti e voci lontane. Era un radioamatore. Nella sua stanza c’era una ricetrasmittente anni ’80, con quel filo attorcigliato come una molla che sembrava vivo. Lo vedevo seduto lì, con le cuffie, a parlare con persone invisibili. Usava termini tecnici che per me erano formule magiche: 

“CQ CQ, qui I0XYZ, passo.” Non esistevano ancora cellulari o smartphone. Quello era il suo modo per viaggiare senza muoversi, per avere amici sparsi nel mondo, per sentirsi parte di qualcosa più grande.

Io lo guardavo, incantata. E pensavo che mio fratello fosse un po’ mago, un po’ astronauta, un po’ inventore. E io, la sua piccola assistente, pronta a seguirlo ovunque.


lunedì 1 settembre 2025

Lettera a mio padre

 Caro papà,


Non so bene da dove cominciare, ma sento il bisogno di parlarti.
Anche se non sei più qui con me, la tua presenza continua a vivere nei miei pensieri,
nei sogni, nei gesti quotidiani. Ho sognato di te, e quel sogno mi ha toccato profondamente. 
Ti ho visto giocare dei numeri al lotto, vincere, e piangere 
dicendomi che potevi stare tranquillo per altri nove anni. 
Quelle parole mi sono rimaste dentro. 
Come se mi stessi dicendo che posso andare avanti, che sei fiero di me, 
che mi proteggi ancora.

Mi manchi. Mi manca il tuo sguardo, il tuo modo di parlare, anche i tuoi silenzi. 
A volte vorrei poterti raccontare tutto: le paure, le scelte, le gioie. 
Vorrei sapere cosa ne pensi, se sto facendo bene, se ti sto onorando come figlia.

Ci sono momenti in cui sento il tuo abbraccio invisibile. 
Come quando mi fermo a guardare il cielo, o quando ascolto una canzone che ti piaceva. 
E ci sono giorni in cui il dolore è più forte, ma anche lì, sento che tu ci sei.

Questa lettera è il mio modo per dirti grazie. 
Grazie per quello che mi hai insegnato, per l’amore che mi hai dato, 
per la forza che mi hai lasciato. 
E se c’è qualcosa che non ti ho detto abbastanza, è questo: 
ti voglio bene. Sempre.

Con amore, Elena


domenica 31 agosto 2025

Lettera a Elena

 Lettera a Elena 

Cara Elena, oggi ti ho vista. 

Non in sogno, non in un ricordo sbiadito, 

ma in quella stanza gialla che da troppo tempo custodiva il tuo silenzio. 


Eri lì, rannicchiata, con le braccia strette attorno alle ginocchia 

e gli occhi grandi pieni di tristezza. 

Il vuoto attorno a te era così forte che sembrava parlare al posto tuo.


Ti ho guardata, e tu mi hai guardata. 

E in quel momento, ho sentito tutto: 

il dolore, la solitudine, la paura di diventare me. 

Hai pianto, e io ho pianto con te. 

Perché sì, è vero: il tempo è passato, 

ma le ferite non si misurano in anni. 

Si misurano in sguardi mancati, 

in parole non dette, 

in abbracci che non sono mai arrivati.


Ma oggi, Elena, qualcosa è cambiato. 

Oggi ti ho teso la mano. 

Oggi ti ho aspettata con le braccia aperte. 

E tu, con quel sorriso timido e una lacrima sul viso, 

hai fatto il passo più coraggioso: 

mi sei venuta incontro.


Ci siamo abbracciate. 

E in quell’abbraccio c’era tutto: 

la bambina che sei stata, 

la donna che sono diventata, 

e la promessa che da oggi in poi saremo insieme. 

Non più separate. 

Non più nemiche. 

Ma alleate.


Tu non sei sbagliata. 

Tu non sei invisibile. 

Tu sei Elena, la figlia di marzo, 

e io ti porto con me. 

Nel cuore, 

nella voce, 

nella luce che finalmente ci avvolge.

Con amore eterno, 

Elena



sabato 30 agosto 2025

Il mio baule dei tesori… profumava di detersivo




Quando ero piccola, il mio “baule dei giochi” non era di legno intarsiato o con lucchetti dorati. Era un fustino vuoto di detersivo Dixan o Dash. Robusto, con il manico di plastica e il coperchio che si apriva con un “crack” secco. Dentro c’era il mio mondo: bambole spettinate, macchinine con le ruote un po’ storte, costruzioni colorate, e il mio inseparabile Bongo.

Lo tenevo nel corridoio, sopra una coperta stesa a terra. Mi sedevo lì, le gambe incrociate, e tiravo fuori un gioco alla volta, come se stessi scegliendo un gioiello da una scatola preziosa. Negli anni ’80 era così per tanti bambini: niente contenitori di plastica trasparente o scaffali ordinati. Solo un fustino di cartone, che prima aveva lavato i panni di tutta la famiglia… e poi custodiva i sogni di un’infanzia.

Quando arrivavano le visite

Spesso, dopo ore passate seduta sulla mia coperta nel corridoio, mi addormentavo tra i miei giocattoli. Il fustino del Dash era lì accanto, aperto, con i peluche che sbucavano come curiosi spettatori dei miei sogni.

Poi arrivava la voce di mamma: "Dai, rimetti tutto a posto, che stanno per arrivare gli ospiti."

A malincuore, raccoglievo bambole e macchinine, e uno alla volta li infilavo nel fustino. Il mio piccolo tesoro finiva sotto il tavolo del ripostiglio, nascosto come se fosse un segreto da proteggere.

Che seccatura, le visite. Non potevo guardare la TV, nessuno voleva giocare con me, e dovevo pure cambiarmi d’abito. Restavo lì, seduta composta sul divano, ad ascoltare conversazioni di grandi che non capivo, contando i minuti fino a quando avrei potuto liberare di nuovo i miei giochi. Che seccatura, le visite. Non potevo guardare la TV, nessuno voleva giocare con me, e dovevo pure cambiarmi d’abito. Restavo lì, seduta composta sul divano, ad ascoltare conversazioni di grandi che non capivo, contando i minuti fino a quando avrei potuto liberare di nuovo i miei giochi.

Ma quando finalmente se ne andavano… era troppo tardi. A volte restavano anche per cena, e allora la noia diventava infinita. Si faceva buio, poi tardi, e io dovevo andare a dormire perché l’indomani c’era la scuola. Il mio fustino restava chiuso, i giochi prigionieri fino al giorno dopo.



La mattina dopo

La mattina, la sveglia suonava presto. Ancora un po’ assonnata, infilavo il grembiulino azzurro, fresco di bucato, e legavo sotto il mento il fiocchetto rosso a pois. Era il mio “abito da lavoro” di bambina, quello che mi trasformava da sognatrice del corridoio a scolara diligente.

Prendevo la cartella, rossa con i bordi bianchi, e mamma mi accompagnava fino al cancello della scuola. Dentro, il vociare dei compagni, l’odore di matite temperate e quaderni nuovi. Fuori, il mio fustino di giochi restava a casa, sotto il tavolo del ripostiglio, ad aspettarmi. Sapevo che, finito il pomeriggio di compiti, sarei tornata da lui. E allora, finalmente, avrei riaperto il mio piccolo scrigno di tesori. 


Ah, quei dettagli che restano impressi più delle stesse lezioni… Il grembiulino azzurro e il fiocchetto rosso potevano anche avere un loro fascino, ma i calzettoni di cotone bianco ricamati erano una piccola tortura quotidiana: il prurito che iniziava appena uscivi di casa e ti accompagnava fino all’ultima campanella. E poi le scarpette di cuoio “occhi di bue” con la cinghietta laterale… belle, sì, ma dopo un’ora già sentivi il bruciore sulle caviglie e le piaghette che ti facevano camminare come su gusci d’uovo.


Il lato scomodo dell’eleganza

Il grembiulino azzurro mi stava a pennello, il fiocchetto rosso a pois era il mio distintivo. Ma sotto, i calzettoni bianchi ricamati iniziavano presto la loro danza di prurito, e le scarpette di cuoio occhi di bue, con la cinghietta stretta, trasformavano ogni passo in una piccola prova di resistenza. Camminavo verso scuola cercando di ignorare il fastidio, contando i passi fino al momento in cui, a casa, avrei potuto liberarmi di tutto e correre scalza sul pavimento fresco.

“piccoli supplizi”


sabato 23 agosto 2025

Ancora mamma… e poi Bim Bum Bam

C’era una routine dolce, quasi sacra, nei miei pomeriggi da bambina. 
La mattina a scuola, il ritorno a casa, il pranzo veloce… e poi il riposino. 
Ma io non volevo dormire. Mamma cercava di convincermi, con pazienza e carezze. 
Le chiedevo: “Mi fai i massaggini?” Oppure: “Toccami i capelli…” 
Era così rilassante che appena smetteva, aprivo gli occhi e dicevo: 
“Ancora mamma, ancora… ancora…” Lei, sfinita, si arrabbiava un pochino: 
“Se non vuoi dormire, allora alzati e fai qualche altra cosa!”

E così facevo. Mi sedevo su una delle due poltroncine in velluto rosa antico, ai piedi del letto. 
La TV UltraVox rossa era lì, sopra il tavolino accanto al comodino.  
Niente telecomando, ovviamente. 
Aspettavo con ansia l’inizio del mio programma preferito: Bim Bum Bam. 
Manuela Blanchard, Paolo Bonolis, e Uan, il pupazzo rosa con il ciuffo ribelle. 
Due ore di magia, intervallate da pubblicità che sembravano parte dello spettacolo.



Il mio cartone preferito? Candy Candy. Con lei piangevo, sognavo, mi perdevo. 
Poi c’erano Heidi, Dolce Remì, e una lunga lista di cartoni animati 
che mi facevano compagnia nei pomeriggi in cui il sonno non voleva arrivare.

E così, tra un massaggino e un cartone, tra una poltroncina e una TV senza telecomando, 
cresceva la mia infanzia. Dolce, imperfetta, indimenticabile.

giovedì 21 agosto 2025

La pipa gelato e il mio Braccio di Ferro

Negli anni ’80 c’era un gelato particolare: veniva servito dentro una pipa di plastica colorata. 


Dentro, un cremoso fiordilatte che si poteva gustare con un cucchiaino… oppure succhiandolo direttamente dal beccuccio, come se si stesse fumando un sogno dolce. 
Non ricordo la marca, ma ricordo perfettamente la sensazione. 
E soprattutto, ricordo cosa succedeva dopo.





Una volta finito il gelato, quella pipa diventava il mio oggetto magico. 
Io, appassionata dei fumetti di Braccio di Ferro, la stringevo tra le mani e mi sentivo come lui: 
forte, buffa, pronta all’avventura. 
Nel mio ripostiglio, insieme a Bongo, il mio compagno di giochi, 
inventavamo storie ispirate ai fumetti. Pisellino, Olivia, Braccio di Ferro… 
tutti prendevano vita tra le scatole, le scarpe e la luce che filtrava dalla finestrella.


La pipa gelato non era solo un contenitore. 
Era un portale. 
Un piccolo oggetto che mi faceva viaggiare tra sogni e fumetti, tra cucchiaini e risate.

Pisellino, la poltrona e il gelato spaziale

Da bambina avevo una passione: i giornaletti di Braccio di Ferro. 
Li leggevo e rileggevo fino a consumarne le pagine, 
seduta nella mia poltrona di velluto con la trama a quadratini. 


Quella poltrona aveva un potere strano: se la fissavi troppo a lungo, ti faceva girare gli occhi. 
La vista si sdoppiava, come davanti a uno stereogramma, e la trama sembrava sollevarsi in rilievo. 
A volte, mentre leggevo, mi mettevo a testa in giù sulla poltrona, con le gambe rivolte verso lo schienale. Era il mio modo di ribaltare il mondo, di farlo diventare più strano, più divertente. 
La trama a quadratini del velluto sembrava ancora più ipnotica da quella posizione, 
e i sogni diventavano più vicini. 
Forse è anche per questo che quella notte sognai di essere Pisellino: 
avevo già fatto il primo passo verso lo spazio, capovolgendo la realtà. 
Ma non era la poltrona il vero protagonista.  



Era Pisellino, il nipotino di Braccio di Ferro e Olivia. 
Ricordo una storia in particolare; non so più quale fosse il titolo, dove Pisellino si smarriva   
e finiva dentro un disco volante. I comandi della navicella erano speciali: 
non servivano per pilotare, ma per distribuire gelati. 
E non gelati qualunque… gusti infiniti! 
Fragola, cioccolato, pistacchio, menta, liquirizia, cocco, caramello salato… 
ogni pulsante era una delizia.

Quella sera, dopo aver letto per l’ennesima volta quella storia, 
mi addormentai con il giornaletto ancora tra le mani. E sognai. 
Sognai di essere al posto di Pisellino, a bordo di quella astronave. 
I comandi erano davanti a me, e io non sapevo da dove cominciare. 
Assaggiavo tutto, ridevo, mi perdevo tra i gusti. Era il sogno perfetto.

Poi, la sveglia. Mamma mi chiamava: “Su, è ora di andare a scuola!” 
E io avrei voluto restare ancora un po’… solo per assaporare altri gusti... 
Magari il gelato di pollo e patatine fritte, oppure il gelato di hamburger di Poldo.

martedì 19 agosto 2025

Post per i social

Oggi voglio dire una cosa semplice, ma importante. 
Le storie che racconto sono mie. 
Le ho vissute, le ho sentite sulla pelle, le ho custodite per anni. 
Se uso un correttore, un suggerimento, un’immagine generata per accompagnarle, non sto rubando nulla. Sto solo cercando di raccontarle nel modo più bello e accessibile possibile.



L’intelligenza artificiale non inventa la mia vita. 
Mi aiuta a darle forma, a farla arrivare. 
Come una penna, un computer, una macchina fotografica. 
Gli strumenti cambiano, ma il cuore resta.


Scrivere con l’aiuto dell’intelligenza artificiale non significa barare. 
È come scegliere di guidare un’automobile invece di camminare a piedi. 
La strada è sempre mia. 
La destinazione la decido io. 
Ma arrivo più lontano, più in fretta, e con meno fatica.

L’AI non scrive al posto mio. 
Mi dà strumenti, idee, prospettive. 
Come un navigatore che suggerisce percorsi, ma non tocca il volante.

E se qualcuno pensa che questo tolga valore alle mie parole, 
forse non ha mai provato a guidare con il cuore.
E se qualcuno pensa che questo sia barare, io rispondo così: 
“La mia voce è vera. E non ha bisogno di permesso per essere ascoltata.”

Elena Sandoval

Il cinema segreto

Nel cuore della casa, nascosto tra scope e scarpe, c’era il mio rifugio segreto. 
Il ripostiglio non era solo un angolo dimenticato: era la mia isola di Peter Pan, 
il mio cinema personale. 





Arrampicandomi sulla scarpiera, raggiungevo una piccola finestrella. 
Bastava inclinare l’anta nel modo giusto, e sul tetto si rifletteva il mondo: 
automobili colorate, passanti frettolosi, frammenti di vita. 
Io e Bongo, il mio fedele compagno di giochi, scommettevamo sul colore della prossima macchina. Bianca, rossa, verde… ogni attesa era un battito di cuore. 
Non c’erano poltrone né popcorn, ma c’era magia. 
E non ero più sola. Avevo un cinema tutto mio.




Il cinema delle ore segrete


Ma non era sempre uguale. La magia non si accendeva a comando, come una televisione. 
Bisognava aspettare. 
Solo in certe ore del giorno, quando il sole si inclinava nel modo giusto, 
il raggio di luce filtrava dalla finestrella e colpiva l’anta con precisione. 
Allora, sul tetto, si accendeva lo spettacolo. 
Io e Bongo lo sapevamo bene. Ci coricavamo sopra la coperta scozzese, 
circondati dai nostri giocattoli, e aspettavamo in silenzio. 
“Sta per cominciare,” dicevo sottovoce. 
E poi… un’automobile rossa, una bicicletta blu, una signora col cane. 
Ogni sagoma era una storia. 
Ogni riflesso, un frammento di mondo. 
E il tempo, per un po’, si fermava.

lunedì 18 agosto 2025

Ci volevo, ci volevo! Quando le parole pungono più del pepe


Da bambina, uscire con mio padre era un piccolo evento. 
Non si trattava di grandi viaggi o regali speciali, ma di quelle uscite semplici che, a distanza di anni, brillano come gemme nella memoria. 
Una delle nostre mete preferite era la friggitoria di un suo amico, 
un luogo che odorava di olio bollente, chiacchiere di quartiere e risate sincere.

 Lui parlava con il suo amico, io osservavo tutto: 
le panelle che sfrigolavano, le crocché dorate, il vociare allegro del quartiere.



La friggitoria era minuscola, con il bancone in acciaio sempre unto e una vetrina piena 
di arancine, melanzane fritte, panelle e crocché. 

La vera protagonista, almeno per me, era la mamma anziana del proprietario. 
Una signora minuta, con gli occhi vispi e la lingua affilata, 
che mi accoglieva ogni volta con un sorriso che non arrivava mai agli occhi
 e puntualmente con lo stesso scherzo:

  . “Tu non ci volevi,” diceva. 
Sei un'ombra, Sempre appiccicata a tuo padre…”

Non era un gioco. Non era una battuta. Era una frase che mi pungeva, 
che mi faceva sentire fuori posto, come se la mia presenza fosse un errore di calendario.  

Adoravo quelle uscite con papà, mi sentivo al centro del suo mondo,
 non capivo perché quella signora mi volesse togliere il diritto di esserci.

Mi piaceva quel posto e mi sentivo importante accanto a papà, 
ma questa cosa mi faceva diventare triste. 

Le guance mi si accendevano di rosso come le luci del semaforo, 
e rispondevo con tutta la convinzione che può avere una bambina di sei anni: 
“Sì che ci volevo! Ci volevo, ci volevo!”

Lei rideva, papà rideva, e io… mi arrabbiavo ancora di più. 

Ma poi bastava una crocchetta calda tra le mani, o il profumo delle panelle appena fritte, 
per farmi dimenticare tutto. 
E anche se continuava a stuzzicarmi, io sapevo che quel gioco sarebbe finito presto.

Papà mi guardava, a volte sorrideva, a volte taceva. Forse capiva, forse no. 
Ma io lo sapevo: in quel momento, io ci volevo. Eccome se ci volevo.

Oggi, ripensando a quella frase, mi rendo conto di quanto possa pesare una parola 
detta con leggerezza o con malizia. 
Di come i bambini assorbano tutto, 
anche ciò che gli adulti pensano di nascondere dietro una risata.

Ma so anche che quella bambina, testarda e fiera, ha imparato a difendere il suo posto nel mondo. 
A dire “ci volevo” non solo come risposta, ma come affermazione di sé.

E forse, in fondo, è questo che conta: sapere che si ha diritto a esistere, 
a essere amati, a camminare accanto a chi ci vuole davvero.

Ripensando a quella frase “ci volevo, ci volevo” mi accorgo che racchiude molto più di una risposta infantile. È il desiderio di appartenere, di essere parte di qualcosa. 

Di dire: 

“Io ci sono, e questo momento è anche mio.”

E forse è proprio questo che rende certi ricordi così speciali: 

non il luogo, non il cibo, ma il modo in cui ci facevano sentire. 


Ci volevo, ci volevo

Diceva che io non ci volevo,

 che ero di troppo, 

che non servivo. 

Ma io col papà camminavo leggera, 

e dentro di me brillava una sera.

Con le guance rosse e il passo sicuro, 

rispondevo forte, senza timore oscuro: 

“Sì, ci volevo! Ci volevo davvero!” 

con il caschetto nero e il cuore sincero.

Il mio rifugio segreto

 Quando cantavo per Bongo

Da bambina, la mia casa era spesso attraversata da tempeste invisibili. I miei genitori litigavano di frequente, per soldi o per motivi che a me sembravano futili. Le loro urla si rincorrevano tra le stanze, e io mi sentivo sopraffatta, come se il mondo si stesse sgretolando attorno a me. Cercavo di farli smettere, gridando anch’io, ma era come se fossi invisibile. Così, quando il rumore diventava troppo, cercavo una via di fuga.



Avrei voluto che si aprisse un varco nel muro del corridoio, una porta magica che mi trasportasse in un luogo calmo, pacifico, fantastico. Quel varco non si apriva mai, ma nella vecchia casa al terzo piano c’era un piccolo ripostiglio che diventava il mio rifugio segreto. Aveva una finestrella alta e minuscola, da cui filtrava una luce gentile. Lì dentro, tra scatole e silenzi, trovavo la mia pace.

Prendevo Bongo, il mio orsacchiotto, e un cuscino, e mi rifugiavo nel ripostiglio. Era piccolo, ma ordinato. Vicino alla porta, c’era un tavolo coperto da una lunga tovaglia che arrivava fino a terra. Sollevavo quella coperta e mi infilavo sotto, immaginando di essere in una capanna, o in una tenda da campeggio. Chiudevo la porta, e il mondo restava fuori.

Lì sotto, iniziava il mio spettacolo. Cantavo per Bongo tutte le canzoncine dei cartoni animati che conoscevo. Ero la presentatrice, la cantante, la star. Bongo era il mio pubblico fedele, sempre attento, sempre presente. Cantando, non sentivo più le urla. Solo la mia voce, e il battito del cuore che tornava calmo.

Quel piccolo angolo nascosto era il mio rifugio, il mio palco, il mio mondo. E ancora oggi, quando penso a quel ripostiglio, sento la dolcezza di quelle note che mi proteggevano.

 La capanna di Bongo 

Nel corridoio urlava il vento,

 tra mamma e papà, un battimento.

Io piccolina, cuore in pena, 

cercavo pace, una scena serena.

Sognavo un varco nel muro grigio, 

che mi portasse in un dolce rifugio. 

Ma nella casa al terzo piano, 

c’era un ripostiglio, piccolo e strano.

Con Bongo stretto tra le braccia, e

 un cuscino sotto la faccia, 

entravo piano sotto al tavolo, 

dove il silenzio era un regalo.

La coperta lunga come tenda

 diventava il palco della leggenda. 

Cantavo forte, senza paura,

 le canzoncine, la mia armatura.

Bongo ascoltava, occhi attenti,

 tra le mie note e i miei lamenti. 

Io ero la star, la presentatrice, 

in quel mondo fatto di voce e radice.

Le urla fuori si facevan lontane, 

come onde spente, come campane. 

Nel mio rifugio, sotto la stoffa, 

trovavo pace, anche se goffa.

Ora che il tempo è passato via, 

quel ripostiglio è poesia. 

E ogni nota che cantavo allora, 

vive nel cuore, ancora e ancora.


mercoledì 13 agosto 2025

La stanza di mio fratello

 Musica, cucito e sogni




La stanza di mio fratello era la prima a destra, appena entravi. 
Piccola, come tutte le stanze di quella casa, ma piena di cose 
che parlavano di lui e anche un po’ di mamma.

Il letto era richiudibile, un mobile che si apriva la sera e spariva al mattino. 
Accanto, sotto la finestra rettangolare con un’unica anta, 
c’era la macchina da cucire di mamma. 
Una presenza silenziosa, sempre pronta, come lei. 
Ricordo il rumore del pedale, il filo che correva veloce
e le stoffe che prendevano forma.

Di fronte al letto, un grande armadio bicolore: noce scuro e avorio. 
Solido, elegante, con le ante che cigolavano appena. 
E a seguire, un baule verde, un po’ ammaccato, ma pieno di misteri: 
vecchi vestiti, spartiti, forse anche qualche sogno.

Vicino alla porta, la tastiera. Mio fratello suonava, e quando venivano i suoi amici, 
la stanza si riempiva di musica. 
Aveva una piccola band, e insieme suonavano le canzoni dei Pooh, di Baglioni, dei New Trolls. 
Lui alla tastiera, gli amici al basso e alla chitarra elettrica. 
Le note si mescolavano alle voci, alle risate, 
ai sogni di ragazzi che credevano nella bellezza di un accordo perfetto.

Io  ascoltavo da lontano, nascosta dietro la porta, 
immaginando di essere a un concerto, con il cuore che batteva al ritmo di quelle melodie 
che ancora oggi ci fanno vibrare.

Quella stanza era un mondo a parte. Un mondo dove si cuciva, si dormiva, si suonava. 
Dove il poco spazio diventava possibilità, e ogni oggetto aveva un’anima.

La casa al terzo piano

La casa dove vivevo da bambina era al terzo piano di un palazzo anni ’50 
senza ascensore.
Ricordo ancora la porta d’ingresso, color avorio, 
che si apriva su un piccolo ingresso rettangolare.
Tre porte si affacciavano su quell’ingresso: 
la prima a destra era la stanza di mio fratello,
subito accanto, sempre a destra, la camera da letto dei miei genitori.
Di fronte a quella, una porta conduceva a un corridoio.



All’inizio del corridoio c’era una cucina minuscola, 
così piccola che sembrava fatta per le bambole.
 Il corridoio faceva una curva ad L, e sulla destra c’era un camerino, 
un ripostiglio con una finestrella alta, 
che lasciava entrare solo un filo di luce.

Proseguendo, sulla sinistra, c’era la porta del bagno. 
Un metro più avanti, l’ultima stanza: 
il salotto che tutti usavamo come stanza da pranzo. 
Lì, su un divano letto, dormivamo io e mia sorella. 
Quella stanza era  il nostro mondo notturno, 
tra cuscini  e sogni .

Ogni angolo di quella casa aveva una voce. 
Ogni porta aperta o chiusa raccontava qualcosa. 
E anche se oggi non esiste più per noi, poiché ci vive altra gente, 
io la porto dentro al cuore e nella mente.

La casa al terzo piano

Al terzo piano, senza ascensore,
viveva il tempo col suo tepore.

La porta avorio, un piccolo ingresso,
 tre porte in fila, un mondo complesso.

A destra mio fratello dormiva, 
nella stanzetta dove mamma cuciva.

Di fronte il corridoio si apriva, 
e la cucina piccina ci accoglieva viva.

Un camerino con finestra alta, 
dove la luce entrava e poi si spandeva.

Il bagno a sinistra, un metro più in là, 
e il salotto che la notte ci abbracciava già.

Sul divano letto, io e mia sorella, 
tra sogni leggeri e una stella ribelle.

Ogni stanza parlava, ogni angolo amava, 
e quella casa, nel cuore, ancora si respirava.

martedì 12 agosto 2025

Il profumo del mughetto e i sogni cuciti a mano



Non so come sia possibile, ma lo ricordo. 
Il profumo di mughetto che aleggiava nella cesta di vimini dove dormivo da neonata. 
Una cesta rivestita con stoffa bianca a fiorellini minuscoli, cucita a mano da mia madre. 
Quel dettaglio, così lontano, così preciso,  mi accompagna ancora. 
Come se la memoria avesse scelto di conservare proprio quel frammento, come un sigillo d’amore.



Mio padre era un operaio, ma da giovane aveva fatto mille mestieri. 
Tra questi, l’intrecciatore di vimini. Sapeva creare ceste, culle, sedie a dondolo, salotti. 
Le sue mani sapevano costruire rifugi.

Mia madre, invece, cuciva. 
A mano, a macchina, ricamava con grazia. 
Aveva frequentato un corso da sarta, ma non poté ritirare il diploma: costava troppo. 
Sua madre, mia nonna,  non lo riteneva importante. 
Per lei, solo il figlio maschio doveva studiare e laurearsi. 
Le femmine dovevano restare a casa, fare le casalinghe. 
Mia madre avrebbe voluto diventare maestra o artista, ma le fu vietato.

E io, oggi, rabbrividisco davanti a quell’ignoranza, a quella cattiveria mascherata da tradizione. 
Quanti sogni negati, quante ali tarpate. 
Eppure, in quella cesta profumata di mughetto, c’era già la bellezza che loro avevano creato insieme. 
Con le mani. Con il cuore. 
Con tutto ciò che non era permesso, ma che esisteva lo stesso, proprio come me.

Nel profumo del mattino

Nel cesto di vimini, dolce e leggero, 

dormivo cullata da un sogno sincero. 

La stoffa cucita da mani pazienti, 

nascondeva storie, dolori latenti.

Il mughetto spargeva il suo aroma sottile, 

come un canto segreto, fragile e gentile.

 Mia madre cuciva con occhi lucenti, 

mio padre intrecciava con gesti sapienti.

Le donne di casa, silenziose e fiere, 

vivevano vite tra sogni e barriere. 

Ma in quel profumo che ancora mi resta, 

c’è tutta la forza che il tempo non arresta.



venerdì 8 agosto 2025

Mani di carta e fantasmi immaginari: il ricordo di una bambina sensibile



Avevo forse cinque o sei anni. Forse meno. Ero una bambina paurosa, troppo sensibile per quel mondo fatto di scherzi e risate crudeli. Mia sorella, più grande di me di quattordici anni, e mio fratello, di dieci, si divertivano a prendermi in giro. Per loro era un gioco, per me un incubo.



Ritagliavano sagome di mani da fogli bianchi e le infilavano nelle fessure delle porte e degli armadi. Mi dicevano: "Guarda, i fantasmi stanno venendo a prenderti… senti il suono dell’ambulanza… stanno arrivando per portarti via." Io non capivo che fosse uno scherzo. Correvo via piangendo, tremando, con il cuore che batteva forte. Mi sentivo stupida, ingenua. Mi chiamavano “bacchettona”, come se la mia paura fosse una colpa.

Poi arrivava mia madre. Mi trovava in lacrime, mi stringeva, mi proteggeva. Rimproverava loro, li puniva. Ma ogni suo gesto d’amore verso di me sembrava alimentare in loro un’antipatia crescente, un’ostilità che non capivo. Forse era l’eco dell’odio di mia nonna, che aveva sempre avuto i suoi preferiti. E io non ero tra quelli.

Quel ricordo mi accompagna ancora. Non per il dolore, ma per ciò che mi ha insegnato: che la sensibilità non è debolezza, che la paura di una bambina merita rispetto, e che l’amore di una madre può essere l’unico rifugio in mezzo a un mondo che non sa accoglierti.
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Non era affatto stupidità o ingenuità: era la dolcezza di una bambina che sentiva tutto profondamente. E quella sensibilità, anche se allora mi faceva soffrire, è ancora una parte preziosa di me.
I giochi crudeli mascherati da scherzi spesso nascondono dinamiche familiari più complesse.

La figura della nonna che alimentava preferenze e ostilità è un dettaglio doloroso. È come se io fossi stata il bersaglio di qualcosa che andava oltre i semplici dispetti tra fratelli. Eppure, anche in mezzo a tutto questo, c’era mia madre che mi proteggeva, che vedeva il mio dolore e cercava di difendermi. 
Ho avuto almeno una voce che si alzava per me.

martedì 5 agosto 2025

Siamo tante storie a colori

Delle volte si può provare a cambiare le cose partendo da lontano, con piccoli gesti che non sempre portano a un risultato, sicuramente non nel breve termine. E allora quel che si può adottare è la compensazione, fatta di piccoli momenti di spensieratezza e leggerezza.
Ed è questo che speriamo di potervi regalare ogni giorno. 



Benvenuti a tutti!!



domenica 3 agosto 2025

Finta spiaggia al terzo piano



L’estate era ovunque: nell’aria, nel sudore che pizzicava la pelle, nel rumore della radio che suonava "How deep is your love".  
Avevo cinque anni e non c’era sabbia né mare, solo il balconcino del terzo piano e una coperta stesa con le mollette, per fare ombra.

Mamma diceva:


“Facciamo finta che siamo in spiaggia anche noi.” E io credevo a tutto, perché lei era brava a inventare mondi anche con niente.

Indossavo mutandine bianche e canottiera leggera. I sandali li mettevo per forza: lei non voleva vedermi a piedi scalzi. La telefonata arrivava puntuale: era mia zia, che si vantava della partenza imminente per il mare con i suoi figli. Noi no. Mancava la benzina, mancavano le gite, ma non mancava la fantasia.



Sul balcone, con Bongo accanto, costruivamo castelli di sabbia immaginaria. Il secchiello era vuoto, ma pieno di sogni. Il solleone colpiva il muro, ma sotto quella coperta io ero altrove: una spiaggia, un tuffo, una corsa col mio orsacchiotto. E quando arrivava l’ora di pranzo, iniziava la parte che amavo di più: il riposino con mamma.



Io non volevo né dormire né mangiare. Ma lei, con quella dolcezza che solo le madri sanno usare, si stendeva accanto a me, mi faceva il solletico dietro le spalle, mi accarezzava i capelli. Stava con me. E in quel momento il mondo era perfetto. Silenzioso, caldo, nostro. Fino a sera, quando tornava papà.

giovedì 31 luglio 2025

Il gioco negato



I cugini ridevano, si rincorrevano tra le stanze. 
Il tappeto diventava pista, il divano rifugio, e i loro sguardi 
quando si posavano su di me erano taglienti come il vetro. 




“Non puoi giocare,” dicevano. “Vai via.”
 La voce era la loro, ma l’intenzione era quella della nonna. 
La regola tramandata come un comando invisibile.

Io chiedevo piano, con una speranza fragile: “Posso venire a giocare anch’io?” 
Ma bastava uno sguardo storto, una frase sibilata, e quel mondo mi chiudeva la porta.

La nonna osservava, a volte con un sorriso appena accennato. 
“Lasciatela stare,” diceva. Come se fossi troppo poco. 
Troppo silenziosa. Troppo me.


Dove finisce il silenzio, comincia l’abbraccio


Allora tornavo nel mio angolo, seduta vicino alla giara, con Bongo stretto al petto. 
Gli parlavo a voce bassissima. 
“Un giorno giocheremo solo noi. Senza nessuno che ci dica di no.”

E Bongo con la stoffa piena di baci e lacrime ascoltava. Sempre.