Da bambina, uscire con mio padre era un piccolo evento.
Non si trattava di grandi viaggi o regali speciali, ma di quelle uscite semplici che, a distanza di anni, brillano come gemme nella memoria.
Una delle nostre mete preferite era la friggitoria di un suo amico,
un luogo che odorava di olio bollente, chiacchiere di quartiere e risate sincere.
Lui parlava con il suo amico, io osservavo tutto:
le panelle che sfrigolavano, le crocché dorate, il vociare allegro del quartiere.
La friggitoria era minuscola, con il bancone in acciaio sempre unto e una vetrina piena
di arancine, melanzane fritte, panelle e crocché.
La vera protagonista, almeno per me, era la mamma anziana del proprietario.
Una signora minuta, con gli occhi vispi e la lingua affilata,
che mi accoglieva ogni volta con un sorriso che non arrivava mai agli occhi
e puntualmente con lo stesso scherzo:
. “Tu non ci volevi,” diceva.
Sei un'ombra, Sempre appiccicata a tuo padre…”
Non era un gioco. Non era una battuta. Era una frase che mi pungeva,
che mi faceva sentire fuori posto, come se la mia presenza fosse un errore di calendario.
Adoravo quelle uscite con papà, mi sentivo al centro del suo mondo,
non capivo perché quella signora mi volesse togliere il diritto di esserci.
Mi piaceva quel posto e mi sentivo importante accanto a papà,
ma questa cosa mi faceva diventare triste.
Le guance mi si accendevano di rosso come le luci del semaforo,
e rispondevo con tutta la convinzione che può avere una bambina di sei anni:
“Sì che ci volevo! Ci volevo, ci volevo!”
Lei rideva, papà rideva, e io… mi arrabbiavo ancora di più.
Ma poi bastava una crocchetta calda tra le mani, o il profumo delle panelle appena fritte,
per farmi dimenticare tutto.
E anche se continuava a stuzzicarmi, io sapevo che quel gioco sarebbe finito presto.
Papà mi guardava, a volte sorrideva, a volte taceva. Forse capiva, forse no.
Ma io lo sapevo: in quel momento, io ci volevo. Eccome se ci volevo.
Oggi, ripensando a quella frase, mi rendo conto di quanto possa pesare una parola
detta con leggerezza o con malizia.
Di come i bambini assorbano tutto,
anche ciò che gli adulti pensano di nascondere dietro una risata.
Ma so anche che quella bambina, testarda e fiera, ha imparato a difendere il suo posto nel mondo.
A dire “ci volevo” non solo come risposta, ma come affermazione di sé.
E forse, in fondo, è questo che conta: sapere che si ha diritto a esistere,
a essere amati, a camminare accanto a chi ci vuole davvero.
Ripensando a quella frase “ci volevo, ci volevo” mi accorgo che racchiude molto più di una risposta infantile. È il desiderio di appartenere, di essere parte di qualcosa.
Di dire:
“Io ci sono, e questo momento è anche mio.”
E forse è proprio questo che rende certi ricordi così speciali:
non il luogo, non il cibo, ma il modo in cui ci facevano sentire.
Ci volevo, ci volevo
Diceva che io non ci volevo,
che ero di troppo,
che non servivo.
Ma io col papà camminavo leggera,
e dentro di me brillava una sera.
Con le guance rosse e il passo sicuro,
rispondevo forte, senza timore oscuro:
“Sì, ci volevo! Ci volevo davvero!”
con il caschetto nero e il cuore sincero.